Il suicidio assistito alla luce della sentenza n. 219 del 2017 della Corte Costituzionale

23.02.2022

Il 13 dicembre 2021 ed il 9 febbraio 2022 la proposta di legge sul suicidio assistito è approdata finalmente nell'Aula della Camera dopo un'inerzia legislativa perdurata ben oltre tre anni dalla prima pronuncia della Corte Costituzionale in tema di aiuto al suicidio (ordinanza n. 207 del 2018).

Il suicidio assistito, inteso come l'assistenza prestata da terzi nel porre fine alla vita di una persona gravemente malata che abbia già deciso, autonomamente, di congedarsi dalla propria esistenza, è ad oggi penalmente sanzionato dall'art. 580 c.p., rubricato "istigazione o aiuto al suicidio".

L'assistenza al suicidio si distingue dalla c.d. "eutanasia passiva", pratica legale e consentita nel nostro paese dalla Legge n. 219/2017 recante "Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento". La citata legge del 2019 prevede che il paziente, in qualità di persona interessata, attraverso un consenso libero e informato, possa esercitare il diritto di rifiutare o interrompere qualsiasi trattamento sanitario, ancorché necessario alla propria sopravvivenza, e che il medico, tenuto a rispettare la volontà del paziente, rimanga esente da responsabilità civile o penale.

La legislazione oggi vigente, invece, non consente al malato che versi in gravi condizioni di salute e che per tal motivo intenda congedarsi dalla vita, il diritto di avere a disposizione trattamenti sanitari diretti a determinare la propria morte. Pertanto, il paziente che, al fine di porre fine alla propria esistenza, rifiuti trattamenti di sostegno vitale - quali l'alimentazione artificiale, l'idratazione, la ventilazione etc. - è costretto a subire un processo lento e carico di sofferenze giacché il correlato processo di indebolimento delle funzioni organiche - il cui esito è la morte - non è necessariamente rapido e indolore.

In occasione dell'oramai noto "caso Cappato", nel 2018 è stata sollevata la questione di legittimità costituzionale dinanzi la Suprema Corte in ordine all'art. 580 del codice penale nella parte in cui tale fattispecie incrimina e sanziona, equiparandole, le condotte di aiuto al suicidio e quelle di istigazione al suicidio, a prescindere dal contributo delle prime alla determinazione o al rafforzamento del proposito di suicidio e anche qualora queste non incidano in alcun modo sul percorso deliberativo dell'aspirante suicida.

Con la pronuncia del 2018 la Consulta aveva sospeso il giudizio de quo e fissato una nuova udienza di trattazione a ben undici mesi di distanza, al fine di lasciare spazio alla discrezionalità del legislatore per la compiuta regolazione della materia, evitando al contempo che medio tempore la norma potesse trovare applicazione.

In occasione dell'udienza di trattazione del 2019, preso atto dell'assenza di una determinazione da parte del Parlamento, il Giudice delle leggi non ha potuto esimersi dal pronunciare sul merito delle questioni, in modo da rimuovere il vulnus costituzionale già riscontrato con l'ordinanza n. 207 del 2018.

Con la sentenza n. 242 del 2019, pertanto, la Corte Costituzionale ha finalmente messo un punto sull'annosa questione dichiarando in definitiva l'illegittimità costituzionale dell'art. 580 c.p., "nella parte in cui non esclude la punibilità di chi, con le modalità previste dagli artt. 1 e 2 della legge n. 219 del 2017, agevola l'esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente". (C. Cost., sent. n. 242 del 2019)

Seguendo l'iter argomentativo della Suprema Corte, la fattispecie criminosa ex art. 580 c.p. non risulta conforme al dettato costituzionale nella specifica ipotesi in cui l'aspirante suicida sia necessariamente "una persona affetta da una patologia irreversibile e fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti capace di prendere decisioni libere e consapevoli". (C. Cost., ord. n. 207/2018).

L'intervento della Consulta, dunque, ha individuato un'area di irrilevanza penale per talune condotte di assistenza al suicidio.

Secondo quanto osservato dal Giudice Costituzionale, ai fini della liceità della prestazione dell'aiuto occorre che l'interessato, sebbene sia affetto da una patologia irreversibile e da una grave sofferenza fisica o psicologica e nonostante la sua esistenza dipenda da trattamenti di sostegno vitale, sia capace di prendere decisioni libere e consapevoli e che queste abbiano formato oggetto di una verifica in ambito medico.

È altresì necessario che il paziente sia stato adeguatamente informato in ordine alle sue condizioni sanitarie e alle conseguenti possibili alternative, e che la sua volontà riguardo al suicidio assistito sia stata manifestata in modo chiaro e univoco, compatibilmente con le sue condizioni fisiche.

Con tale pronuncia si è rilevato, dunque, come in tali circostanze, l'assistenza di terzi nel porre fine alla vita di un malato affetto da una patologia irreversibile rappresenti l'unico modo affinché quest'ultimo possa sottrarsi legittimamente ad un mantenimento in vita artificiale non più desiderato, in totale armonia con quanto disposto dall'art. 32 della Costituzione.

L'irrilevanza penale dell'assistenza al suicidio, dunque, emerge unicamente in relazione a quei casi in cui l'aiuto sia prestato a favore di soggetti che avrebbero, come alternativa, la possibilità di lasciarsi morire mediante la rinuncia a trattamenti sanitari necessari alla loro sopravvivenza, così come previsto dalla L. 219/2017.

Seguendo l'iter argomentativo della pronuncia in oggetto, la Suprema Corte ha ulteriormente osservato che, così come sussiste l'obbligo di rispettare la decisione, da parte del malato, di congedarsi dalla vita tramite l'interruzione dei trattamenti sanitari di sostegno vitale, non dovrebbe sussistere alcuna ragione per la quale ostacolare, attraverso un presidio penale, la richiesta dello stesso malato di un aiuto che lo possa sottrarre al decorso lento e doloroso conseguente all'anzidetta interruzione. Analogamente, così come l'ordinamento giuridico consente a colui il quale è affetto da patologia irreversibile e mantenuto in vita da trattamenti sanitari necessari alla sua sopravvivenza, di disporre della propria esistenza tramite l'eventuale interruzione di tali trattamenti, non vi è ragione per la quale la medesima persona, nella stessa condizione, non possa ugualmente decidere di terminare la propria vita con l'aiuto di terzi.

Conclude la Suprema Corte affermando che "entro lo specifico ambito considerato, il divieto assoluto di aiuto al suicidio finisce per limitare ingiustificatamente nonché irragionevolmente la libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie, comprese quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferenze, scaturente dagli artt. 2, 13 e 32, secondo comma, Cost., imponendogli in ultima analisi un'unica modalità per congedarsi dalla vita".

Alla luce di questo quadro, non resta che attendere l'evolversi del percorso legislativo, auspicando l'emanazione di una disciplina legislativa che ricalchi quanto tracciato dal Giudice Costituzionale e che sia coerente e pienamente in linea con i principi costituzionali.

Dott.ssa Angela Merlini