Mobbing e diritto penale: un reato senza fissa dimora

02.03.2022

La tutela del lavoratore ha da sempre rappresentato una esigenza particolarmente sentita dal legislatore. Tuttavia, da anni si registra un deficit di tutela penalistica in relazione a quelle condotte vessatorie e lesive della integrità psico-fisica che prende il nome di mobbing. Attualmente, nonostante vi siano state iniziative di legge finalizzate a porre rimedio a tale lacuna, manca una fattispecie penale che definisca e punisca tale fenomeno. La giurisprudenza ha tentato di sopperire a tale inerzia, cercando di sussumere il mobbing nelle fattispecie di reato attualmente esistenti. Il contributo offre quindi una panoramica delle pronunce sul tema, evidenziando sia i lati positivi che quelli negativi delle singole soluzioni, concludendo con una breve analisi sulle prospettive future.

L'esigenza di tutelare il lavoratore[1] da continue forme di vessazione, realizzate dal proprio datore di lavoro, dal proprio superiore o dai propri colleghi, ha portato le aule di giustizia ad affrontare la complessa tematica della qualificazione penalistica delle condotte di mobbing. Complessità dettata dalla assenza di una fattispecie penale ad hoc che possa al meglio rappresentare le caratteristiche di tale fenomeno giuridico oltre che sociale.

È innanzitutto doveroso ed opportuno evidenziarne gli elementi caratteristici, soprattutto alla luce delle pronunce "definitorie" della giurisprudenza civile di legittimità. Quest'ultima ha identificato gli elementi costitutivi del mobbing in: «una serie di comportamenti di carattere persecutorio - illeciti o anche leciti se considerati singolarmente - che, con intento vessatorio, siano posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo [...]; l'evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente; il nesso eziologico tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psico-fisica e/o nella propria dignità; l'elemento soggettivo, cioè l'intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi[2]».

Già in ambito civilistico la giurisprudenza di legittimità aveva posto in evidenza la necessità di comportamenti che siano sistematici e ripetuti, volti alla emarginazione del lavoratore vessato. È di immediata evidenza come queste caratteristiche riflettano la ripetitività delle condotte tipica dei reati abituali. Non stupisce, di conseguenza, che la giurisprudenza penale abbia inizialmente ricondotto le condotte di mobbing nell'ambito della fattispecie di maltrattamenti in famiglia, punite dall'art. 572 c.p. D'altronde, è proprio tale disposizione a prevedere un espresso riferimento ad un rapporto di subalternità che ben si concilia con il mobbing cd. verticale (anche detto bossing). Tuttavia, tale qualificazione ha portato queste stesse pronunce a richiedere, come ulteriore elemento costitutivo della fattispecie, la sussistenza di un «contesto para-familiare» richiamato anche dalla stessa rubrica della disposizione. Si è arrivati, di conseguenza, a ritenere esclusa la responsabilità del dirigente ogni qualvolta l'ambiente lavorativo sia caratterizzato da dimensioni medio-grandi, asseritamente incompatibili con un rapporto di affettività e vicinanza tipico di un contesto familiare[3]. L'elemento dell'ambiente para-familiare rende ben evidenti le problematiche dovute all'assenza di una definizione positivamente prevista, dovendo necessariamente adeguare le pre-esistenti fattispecie penali ad un fenomeno in parte diverso.

Ci sono in realtà pronunce che hanno qualificato le condotte come lesioni personali o violenza privata, cercando così di rimediare agli orientamenti che richiedono presupposti ulteriori rispetto a quelli contenuti nella definizione civilistica precedentemente riportata. Tuttavia, è evidente come, in questi casi, l'elemento (questo sì effettivamente necessario secondo la definizione fornita dal giudice civile) della pluralità di atti vessatori del mobbing sia stato del tutto snaturato.

Recenti pronunce hanno tentato di arginare gli effetti perversi dei diversi orientamenti finora prospettati, rapportando il mobbing alla fattispecie degli atti persecutori di cui all'art. 612-bis c.p. La soluzione coglie senza alcun dubbio alcune peculiarità del fenomeno, ma al tempo stesso pecca sotto altri aspetti. Giova fin da subito sottolineare come il reato di atti persecutori preveda un evento naturalistico che ben si adatta alla lesione prodotta dal mobbing: il perdurante stato d'ansia o, in via alternativa, la modificazione coatta delle abitudini di vita della vittima. Inoltre, come la fattispecie di maltrattamenti in famiglia e a differenza delle fattispecie di violenza privata e lesioni, il reato di cui all'art. 612-bis cod. pen. riflette in maniera più che opportuna l'elemento della sistematicità e della ripetitività della condotta vessatoria proprio in quanto reato abituale. Tuttavia, è stato opportunamente evidenziato[4] come il reato di cui all'art. 612-bis c.p., per tradizione, sia stato introdotto per punire condotte perpetrate in assenza di un rapporto sussistente con l'autore del reato, o nel frattempo già dissolto. Al contrario, nel caso del mobbing sarebbe proprio la sussistenza di un rapporto, ossia quello lavorativo, a caratterizzare il fenomeno. Ed anzi, in questi casi sarebbe il mobber a voler recidere il rapporto e la vittima a mantenerlo. Di conseguenza, si comprende facilmente il perché la riconduzione alla fattispecie dello stalking fa storcere il naso ad alcuni commentatori, nonostante l'art. 612-bis c.p. permetta, a differenza del reato di maltrattamenti in famiglia, di punire qualsiasi tipologia di mobbing, e non solo quello verticale.

L'analisi finora condotta non può, in realtà, ritenersi esaustiva. Le caratteristiche peculiari del caso concreto hanno a volte portato i giudici a sussumere il mobbing nella fattispecie di violenza sessuale, laddove il mobber abbia ingenerato la marginalizzazione della vittima abusando della propria autorità e costringendo taluno a subire atti sessuali[5]; in altri casi, spostandoci dal settore del lavoro privato a quello pubblico, il dirigente è stato punito per abuso d'ufficio[6]. Né si può escludere, soprattutto in quei casi estremi in cui le condotte vessatorie si rendano talmente insostenibili per la vittima da portarla a compiere il gesto estremo, che la condotta di mobbing possa configurare la fattispecie di istigazione al suicidio.

La rapida panoramica sulle passate e future qualificazioni del fenomeno in esame in assenza di uno spazio apposito ritagliato dal legislatore pone problematiche, per così dire, sia tradizionali che moderne.

Innanzitutto, si ripropone l'annosa querelle relativa ai limiti della interpretazione del giudice. Infatti, in assenza di una espressa fattispecie, si ha quasi la sensazione che il singolo fatto concreto venga sballottato a destra e a manca a seconda di quello che è, di volta in volta, il sentimento del singolo giudice. Sotto questo aspetto, è più che doveroso sollevare qualche perplessità relativamente alla conformità al canone della prevedibilità, nonché al rispetto del diritto di difesa. Infatti, a seconda della qualificazione affibbiata, la strategia difensiva potrebbe di gran lunga variare[7].

Inoltre, al problema dei limiti al potere giudiziario si affianca quello dei limiti al diritto penale: posto che quest'ultimo deve rispettare il principio di frammentarietà e di sussidiarietà, ci si chiede quale criterio possa guidare l'interprete nella scelta tra penalmente o solo civilmente rilevante in relazione a quei casi rientranti in zone grigie. Qualsiasi luogo di lavoro è caratterizzato da atmosfere più o meno conflittuali e competitive, senza che tuttavia il diritto penale debba rappresentare la panacea di tutti i mali. Quella tensione e quel malessere provato dal lavoratore, per quanto meritevole di tutela, potrebbe trovare conforto anche nel solo processo civile, nelle forme o dell'intervento dell'autorità giudiziaria o degli strumenti alternativi di risoluzione delle controversie. L'attuale situazione normativa non permette, tuttavia, di fare affidamento a criteri solidi ed effettivamente dirimenti.

Infine, il ricorso a fattispecie penali punibili a querela di parte, come avviene per esempio nel reato di atti persecutori, offre il fianco a possibili strumentalizzazioni, in particolare in un settore particolarmente litigioso come quello giuslavoristico. Infatti, il lavoratore destinatario di demansionamento, trasferimento, sanzioni disciplinari o similia potrebbe essere indotto a sporgere formale denuncia-querela con la speranza di poter "negoziare" un futuro ripristino nello status quo ante in cambio della remissione di querela. Le problematiche fin qui evidenziate, purtroppo, non trovano alcun conforto nel sistema normativo attualmente vigente[8].

Terminata questa panoramica de iure condito, conviene soffermarsi seppur brevemente sulle recenti iniziative legislative che si sono occupate del tema. Si nota, da un lato, una particolare attenzione all'introduzione di una specifica e puntuale fattispecie penale che punisca il mobbing[9]. Dall'altro lato, ci si è posti l'obiettivo di potenziare i rimedi civilistici già esistenti. In particolare, è stato proposto un alleggerimento dell'onere della prova per il lavoratore, oppure l'introduzione di sanzioni punitive[10] non solo nei confronti del mobber, ma anche di coloro che falsamente e pretestuosamente denunciano il proprio datore di lavoro. Allo stato attuale, tuttavia, bisogna constatare con una certa delusione come nonostante vi sia un numero spropositato di iniziative legislative, nemmeno una sia giunta a definitiva approvazione. Si direbbe quasi un disinteresse del tutto opposto rispetto all'attenzione finora manifestata dalla giurisprudenza.

Dott. Marco Misiti


[1] È doveroso precisare che il mobbing può verificarsi anche quando soggetto attivo sia il lavoratore e persona lesa sia il datore di lavoro. Tale fenomeno prende il nome di mobbing ascendente. Se invece la condotta vessatoria viene perpetrata da lavoratori a danno di propri colleghi, prende il nome di mobbing orizzontale. Tuttavia, il contributo assumerà come principale oggetto di analisi la condotta realizzata dal datore di lavoro a danno del lavoratore, cosiddetto mobbing verticale.

[2] Cass. Civ., Sez. L., sentenza 6 ottobre 2014 n. 17698.

[3] Paradigmatico è, in tal senso, Cass. pen., Sez. 6, sentenza 28 marzo 2013 n. 28603. In particolare, la dimensione medio-grande dell'ambiente lavorativo ha portato il giudice di legittimità a confermare l'esclusione della integrazione della fattispecie di maltrattamenti in famiglia, annullando tuttavia la sentenza impugnata con rinvio laddove non ha valutato la sussistenza del reato di lesioni, comunque contestato nel capo di imputazione a titolo di aggravante.

[4] Il riferimento è a R. Bartoli, Mobbing e diritto penale, in Diritto penale e processo, 1/2012, 88.

[5] Parla di una sorta di mobbing sessuale Cass. pen., Sez. 3, sentenza 3 dicembre 2014 n. 53445.

[6] Sul punto, si veda Cass. pen., Sez. 2, sentenza 16 aprile 2014 n. 31187.

[7] Si è detto, in relazione alla fattispecie di maltrattamenti in famiglia, che la giurisprudenza maggioritaria richiede come ulteriore presupposto la prova di un contesto para-familiare. Tale elemento non è invece richiesto da quell'orientamento che invece ricomprende il fenomeno del mobbing nell'alveo degli atti persecutori. Di conseguenza, non è indifferente per la difesa dell'imputato la riconduzione del singolo fatto in un determinato tipo di reato piuttosto che in un altro.

[8] Alle problematiche finora evidenziate che caratterizzano specificatamente la questione oggetto di approfondimento si aggiunge la problematica, che tuttavia attiene in generale al diritto penale, della prova degli eventi materiali a dimensione soggettiva. Si pensi infatti al reato di atti persecutori: se l'evento della modificazione delle abitudini di vita mantiene ancora un solido aggancio alla natura materiale, quello dello stato d'ansia o di paura risulta di difficile confutazione da parte della difesa. Infatti, si corre il rischio di appiattirsi sulle sole dichiarazioni rese in sede di sommarie informazioni o di esame testimoniale dalla persona offesa. Quest'ultime, infatti, per pacifica giurisprudenza, costituiscono prove a tutti gli effetti, seppure con la cautela di un accertamento più rigoroso sulla loro attendibilità, e sfuggono al meccanismo dei riscontri, normativamente previsto ai sensi dell'art. 192, comma 2 e 3, c.p.p. solamente per le dichiarazioni rese dal coimputato o da persona imputata in procedimento connesso a norma dell'articolo 12. In generale su quest'ultimo punto, ex multis Cass. pen., Sez. 5, sentenza 13 febbraio 2020 n. 12920. In relazione alla prova del perdurante stato di ansia o paura da elementi sintomatici di tale turbamento, desumibili dalle dichiarazioni della persona offesa, dal comportamento della stessa conseguente alla condotta posta in essere dall'agente e dalla idoneità di quest'ultima, ex multis Cass. pen., Sez. 5, sentenza del 2 marzo 2017 n. 17795.

[9] Senza pretendere di portare avanti una esposizione esaustiva, la maggior parte delle iniziative legislative (DDL 1628, XVIII legislatura; DDL 1785 XVII legislatura; DDL 655 XVIII legislatura) in questione propongono l'inserimento di due fattispecie penali: una, quella di molestie sessuali, la quale prevede un aumento di pena qualora le suddette condotte vengano perpetrate nei luoghi di lavoro; l'altra, quella di atti vessatori in ambito lavorativo, che in parte riprende lo schema di cui all'art. 612-bis c.p. Urgono tuttavia due precisazioni: il solo DDL 1628 prevede, a differenza delle altre due iniziative, che il reato di molestie sessuali sia punibile a querela irrevocabile della persona offesa, forse per limitare quelle forme di negoziazione a cui si faceva riferimento nel contributo; inoltre, tutte le fattispecie di atti vessatori nei luoghi di lavoro fanno riferimento come soggetto attivo non solo al datore di lavoro, ma anche al lavoratore, così da coprire tutte le forme possibili di mobbing.

[10] Merita una specifica menzione il DDL 1339, XVIII legislatura.