Il Fattore culturale nel Sistema Penale

24.05.2023

Il diritto penale si trova sempre più spesso a dover fronteggiare delle situazioni nuove, che costituiscono il prodotto della recente trasformazione della nostra società in direzione multiculturale.

La principale quaestio è se possa riconoscersi alla motivazione culturale che orienta la condotta dell'agente valenza scriminante (verrebbe meno l'elemento oggettivo) o comunque elidente la colpevolezza (verrebbe meno l'elemento soggettivo).

Secondo l'avviso giurisprudenziale il costante il riconoscimento del rilievo penale della diversità culturale non può spingersi fino all'introduzione ed all'accettazione nella società, di consuetudini, prassi, costumi, che si pongono in violazione dei diritti inviolabili della persona, portato di secolari evoluzioni.

Tali opzioni pertanto, a meno che siano state ammesse a tutela dal legislatore, non possono essere invocate per fondare una causa di giustificazione basata sull'esercizio del diritto ex art. 51 c.p. Quest'ultimo disciplina le due diverse cause di giustificazione dell'esercizio di un diritto e dall'adempimento di un dovere. 

Agli effetti dell'art. 51 c.p. la punibilità della condotta umana è in primo luogo esclusa qualora appartenente all'esercizio di un diritto (qui iure suo utitur neminem laedit).

Il concetto di diritto in tal caso va inteso nell'accezione più ampia come potere (facoltà) giuridica di agire (la scriminante abbraccia tutte le attività giuridicamente autorizzate).

In dottrina è condiviso invece l'orientamento (da ritenersi preferibile) per il quale il concetto di diritto deve essere inteso in senso lato come sinonimo di qualsiasi situazione giuridica attiva purché suscettibile di esercizio. Ogni comportamento autorizzato dall'ordinamento giuridico, comunque denominabile sul piano legislativo o dogmatico, potrebbe assumere, quindi, rilevanza ai fini del riconoscimento della scriminante di cui all'art. 51 c.p.

Tanto premesso i diritti da bilanciare saranno di volta in volta da individuare da un lato in quello vantato da chi, nel suo legittimo esercizio, vedrà sottrarsi dall'incriminazione di un fatto che altrimenti assumerebbe penale rilievo e, dall'altro, nel diritto che la norma incriminatrice stessa tende a proteggere.

La stessa ignoranza delle norme che sul piano dell'ordinamento interno conducono all'incriminazione della condotta vietata difficilmente è destinata ad assumere rilievo inteso che, traducendosi in un errore su norma penale, è inescusabile salvo che se ne comprovi l'inevitabilità.

Il fattore culturale potrebbe per il resto incidere, comunque e in via residuale, sul quantum della pena da infliggere al condannato. Questa indagine va condotta in primo luogo tenendo conto del regime delle circostanze del reato.

Con riguardo a queste ci si potrebbe chiedere se la diversità culturale di cui è portatore l'autore di un reato culturalmente motivato possa essere presa in considerazione dai giudici ai fini dell'applicazione di talune circostanze attenuanti o, per lo meno, ai fini della non applicazione di talune circostanze aggravanti.

Vengono in rilievo, in primo luogo, l'attenuante dell'aver agito per motivi (percepiti – secondo il proprio codice culturale – come) di particolare valore morale o sociale (art. 62 n. 1 c.p.), l'aggravante dell'aver agito per motivi (percepibili – secondo il codice culturale e giuridico del Paese ospitante – come) abietti o futili (art. 61 n. 1 c.p.), nonché le circostanze attenuanti generiche (art. 62 bis c.p.) rispetto alle quali rileverebbe l'eventuale situazione di conflitto culturale che abbia ridotto il grado di antigiuridicità o di colpevolezza del fatto commesso.

In relazione a tali circostanze, tuttavia, si pone un problema preliminare: sulla scorta di quali opzioni culturali il giudice deve valutare il valore morale o sociale dei motivi a delinquere, l'abiezione o futilità degli stessi, nonché l'ingiustizia del fatto provocatorio altrui?

Se il metro per la loro valutazione dovesse essere individuato, rigorosamente ed esclusivamente, nella "coscienza etica media del popolo italiano", ovvero nei "valori avvertiti dalla prevalente coscienza collettiva" che riscuotano un "generale consenso sociale", è chiaro, infatti, che la differenza culturale non potrebbe giocare in alcun modo a favore del reo. Sul punto l'esegesi offerta dalla giurisprudenza è parsa negli ultimi anni vaga: se in alcuni casi è stata esclusa la possibilità di fare riferimento al sistema di valori proprio del soggetto agente, allorché tale sistema non sia quello condiviso dalla generalità degli Italiani, in altre occasioni si è proceduto ad effettuare la valutazione dei motivi ad agire anche sulla base delle concezioni diffuse nel gruppo culturale d'origine dell'imputato.

Lo Stato italiano non appartiene in pieno ad un modello assimilazionista – integrazionista e neppure ad un tipo multiculturista. 

Sebbene l'art. 42 del Testo Unico sull'immigrazione vieti ogni discriminazione diretta o indiretta a danno degli immigrati e riconosca importanza alla conoscenza e alla valorizzazione delle espressioni culturali, non ne abilita di certo la conformità a diritto senza condizione alcuna. Costituisce dunque conclusione condivisa, l'escludere che il riconoscimento delle diversità possa spingersi fino al punto da legittimare i comportamenti radicalmente contrastanti con le esigenze di ordine pubblico nonché le consuetudini che portino ad aggredire o ledere i diritti inviolabili della persona portatori di secolari evoluzioni.

Secondo i supremi giudici, in un quadro socio-giuridico che riconosce pari dignità sociale e posizione di uguaglianza nei confronti della legge a tutti i cittadini è bene che i comportamenti riconducibili alle singole culture siano armonizzati in virtù della tutela della unicità della persona umana. Non si può ritenere ammissibile la scriminante dell'esercizio di un diritto anche se questa sia correlata a facoltà riconosciute dall'ordinamento dello Stato di provenienza qualora tale diritto debba ritenersi oggettivamente incompatibile con le regole dell'ordinamento italiano.(Cass. Pen. 14960/15).

Ed ancora la Cassazione Penale n. 29613/18: ai fini della valutazione della sussistenza della consapevolezza dell'illiceità penale della condotta, deve essere effettuato un rigoroso bilanciamento tra il diritto inviolabile del soggetto agente a non ripudiare le proprie tradizioni culturali, religiose e sociali e i valori offesi o posti in pericolo dal suo comportamento. Tuttavia, nessuna forma di rispetto per dette tradizioni del cittadino straniero potrà mai comportare l'abdicazione del sistema penale alla punizione delle condotte aggressive dei diritti fondamentali, in particolare quando si tratta di tutelare l'integrità psico-fisica del minore.

Da ultimo il movente culturale dovrà trovare considerazione in sede di commisurazione della pena da effettuarsi secondo i criteri cui all'art. 133 c.p.

Dott.ssa Noemi Onolfo