I bitcoin possono essere qualificati come profitto del reato ed essere sottoposti a sequestro probatorio?

14.06.2025

Cass. Pen., sez. III, del 15 gennaio 2025, n. 1760

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A cura di Dott. Marco Misiti

Massima: il sequestro di bitcoin deve essere considerato non come diretto del profitto di un reato tributario, ma per equivalente, in quanto gli stessi costituiscono un asset digitale rappresentato da valuta virtuale, e non una moneta avente corso legale nello Stato. Pertanto, non potendo i bitcoin essere qualificati come profitto del reato, non è possibile procedere al sequestro degli stessi a scopo probatorio.

Con sentenza del 15 gennaio 2025, n. 1760, la Terza Sezione penale della Corte di cassazione, precisate le differenze esistenti tra valuta legale e valuta virtuale, ha svolto alcune importanti considerazioni sulla possibilità di qualificare il sequestro di bitcoin come diretto o per equivalente.

Il caso di specie atteneva a un fatto provvisoriamente contestato di dichiarazione infedele di cui all'art. 4 del d.lgs. n. 74/2000. Nell'ambito del procedimento penale era stato disposto il sequestro probatorio di un determinato quantitativo di bitcoin, ritenuto profitto del predetto reato tributario. La misura cautelare era poi stata confermata dal Tribunale del riesame, il quale aveva rigettato il riesame proposto dalla difesa.

Avverso l'ordinanza del predetto Tribunale proponeva ricorso per cassazione la difesa dell'indagato, evidenziando le differenze esistenti tra la valuta virtuale e la moneta avente corso legale nello Stato, nonché precisando che il profitto del reato potesse essere identificato esclusivamente nell'ammontare dell'imposta evasa (ossia, un determinato quantitativo di euro). Il sequestro operato nel caso di specie, pertanto, avrebbe avuto a oggetto un bene – la valuta virtuale – di valore equivalente, ma comunque sostanzialmente differente, rispetto al profitto del reato inteso in senso stretto.

Il giudice di legittimità ha ritenuto fondato il ricorso e ha disposto l'annullamento dell'ordinanza con rinvio per nuovo giudizio al Tribunale di Firenze.

Innanzitutto, la Terza Sezione cita alcuni precedenti giurisprudenziali sulla nozione di moneta (rectius, valuta) virtuale, per poi richiamare la definizione all'epoca esistente contenuta nell'art. 1, comma 2, lett. qq), del d.lgs. n. 231/2007: «rappresentazione digitale di valore, non emessa né garantita da una banca centrale o da un'autorità pubblica, non necessariamente collegata a una valuta avente corso legale, utilizzata come mezzo di scambio per l'acquisto di beni e servizi o per finalità di investimento e trasferita, archiviata e negoziata elettronicamente». Da tale definizione, prosegue la Corte di cassazione, emerge la differenza tra le valute virtuali e quelle ordinarie: le prime non svolgono le funzioni tipiche della moneta, di unità di conto e di riserva di valore e non esiste un soggetto che possa autoritativamente stabilizzarne i corsi.

Ciò premesso, il giudice di legittimità sottolinea come la motivazione del provvedimento impugnato sia contraddittoria laddove afferma la sussistenza di un nesso di derivazione diretta tra i bitcoin sequestrati e il reato, finendo così per «legittimare un sequestro probatorio del reato non diretto, ma per equivalente».

Sul punto si rendono opportune alcune riflessioni. Il principio di diritto affermato dalla Corte di cassazione riguarda esclusivamente l'ipotesi di un sequestro probatorio che, pertanto, può essere disposto solo sul corpo del reato e sulle cose pertinenti al reato. Nel caso di reati tributari, il profitto del reato è l'imposta evasa e, potendo la stessa essere adempiuta solo con moneta avente corso legale, il sequestro probatorio del profitto non può che attenere a tale tipo di valuta.

Ciò non esclude però che i bitcoin e, più in generale, le valute virtuali possano essere considerate come bene di valore equivalente al profitto del reato e, pertanto, essere sottoposte a un sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente.