Concorrenza sul web: inserzioni pubblicitarie e posizionamento tramite key words e meta-tag. Il fenomeno del key advertising
La concorrenza sul web si realizza usualmente tramite il
posizionamento nella lista dei risultati su un motore di ricerca; le
statistiche dimostrano che solo i primi 8 risultati ottengono effettivamente un
"click" da parte dell'utente.
La lesione più o meno diretta dei diritti di uso esclusivo attribuiti al titolare di un marchio costituisce la condotta di turbativa. La normativa di riferimento è costituita dal D.Lgs. 30/2005 s.m.i., Codice della Proprietà Industriale ("C.p.i."), dal Codice civile e, nei casi più gravi, dal Codice penale. L'individuazione di condotte lesive non è sempre agevole quando si realizzano in forma indiretta e allo stesso tempo il fatto avviene nell'immaterialità del web, stante l'atipicità dei fatti illeciti in campo civile.
Il key advertising si realizza mediante l'utilizzo improprio
dei marchi di parola scegliendo keywords e meta-tag appositamente per essere
associati a marchi famosi.
Si tratta dei casi in cui ad una ricerca per parola
chiave, corrispondente a un marchio registrato, su un motore di ricerca vengono
restituiti come risultati anche il sito web o l'inserzione pubblicitaria di un
altro soggetto, a volte anche in posizione preminente, solo perché quest'ultimo
utilizza come meta-tag parole corrispondenti al marchio o simili ad esso.
Normalmente tali attività non sono illecite, tanto che sono rese possibili
anche da noti servizi di posizionamento a pagamento che offrono la possibilità
di scegliere una o più keywords e di far apparire in primo piano un c.d. link
sponsorizzato che rinvia al proprio sito in risposta a una ricerca sul web.
Nel
caso in cui più operatori scelgano la medesima parola chiave, il titolare del
servizio di posizionamento decide le modalità che verranno impiegate per
determinare l'ordine degli annunci, ad esempio mediante procedure d'asta
determinate dal "prezzo massimo per click" che l'inserzionista ha dichiarato di
essere disposto a pagare al momento della stipula del contratto relativo al
servizio.
Le parole più ricercate sono anche quelle di valore maggiore.
Se l'utilizzo di meta-tag è volto a utilizzare l'inserzione pubblicitaria per
offrire una chiara alternativa di acquisto non vi sarà alcun illecito. Sarà
illecito, invece, quell'utilizzo che possa compromettere una delle funzioni
caratteristiche del marchio ingenerando confusione nel consumatore medio e
informato, tanto da impedirgli di comprendere se i prodotti o i servizi cui
l'annuncio si riferisce provengano dal titolare del marchio, da un'impresa ad
esso collegata o da un terzo. In questo caso anche il gestore del servizio di
posizionamento potrà essere diffidato dal proseguire nella condotta illecita ed
eventualmente responsabile del danno prodotto[1].
Nel caso, ad esempio, del marchio "Interflora" il Trib. di Bari,
27/04/2015 ha valutato la condotta di un diretto concorrente come illegittima,
in quanto produttiva di un effetto confusorio con il marchio della ricorrente
e, pertanto, ha vietato alla resistente di utilizzare il meta-tag "Interflora",
in quanto pregiudicava la funzione principale del marchio, generando confusione
sulla provenienza dei prodotti o servizi e sulla loro qualità.
Sullo stesso
marchio, peraltro, si era già espressa la giurisprudenza comunitaria nel caso
"Interflora" - Marks & Spencer[2]
affermando che "il titolare di un marchio
ha il diritto di vietare ad un concorrente di fare pubblicità a prodotti o
servizi identici a quelli per i quali tale marchio è stato registrato, quando
il predetto uso è idoneo a violare una delle funzioni del marchio".
La
Corte evidenzia che la normativa si preoccupa di fornire una tutela assoluta al
registrante nel consentirgli di vietare a terzi l'utilizzo di un marchio di sua
proprietà, anche quando venga utilizzato solo a fini pubblicitari per prodotti
o servizi identici a quelli per i quali tale marchio è stato registrato. È
necessaria la contestualizzazione caso per caso della tutela, che dovrà essere
fornita in modo sufficiente da garantire l'assolvimento delle funzioni del
marchio.
Il Trib. Milano, sent. 3280/2009 ha affrontato proprio un caso di utilizzo di
un marchio di noleggio come keyword per la realizzazione di una campagna
pubblicitaria con lo strumento GoogleAds. L'utilizzo del marchio "Sixt" ha
comportato, oltre ad attività di turbativa illecita del marchio, fatti di
sviamento della clientela con danneggiamento dell'altrui azienda mentre non si
è ritenuta integrata una lesione dell'immagine aziendale per la limitatezza
temporale dei fatti (poco più di un mese).
La giurisprudenza italiana sembra quindi convergere nel ritenere che il key
advertising, quando si utilizzano meta-tag corrispondenti al marchio registrato
altrui, costituisca l'illecito previsto dell'art. 2598 c.c. n. 1 ma è
necessario tenere presente allo stesso tempo che la medesima condotta può
integrare sia l'ipotesi di contraffazione, sia gli estremi di illecito per
concorrenza sleale, rendendo di fatto le due azioni cumulabili all'interno del
medesimo giudizio. È pur sempre necessaria, però, una approfondita analisi
fattuale e multifattoriale.
La Suprema Corte di Cassazione, sez. I, 12/10/2018, n.25607 ha recentemente
ribadito l'esistenza del fenomeno della cd. concorrenza "parassitaria" che consiste
nel "continuo e sistematico operare sulle
orme dell'imprenditore concorrente attraverso l'imitazione non tanto dei
prodotti ma piuttosto di rilevanti iniziative imprenditoriali di quest'ultimo,
mediante comportamenti idonei a danneggiare l'altrui azienda con ogni altro
mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale". Tali
condotte possono essere indubbiamente realizzate anche mediante campagne
pubblicitarie sul web che agiscono sul posizionamento in modo da ottenere una
visibilità abusiva, che si regge sulle spalle della notorietà altrui.
In confronto ad altri fenomeni di concorrenza sleale mediante turbativa del
marchio, dall'analisi della giurisprudenza emerge che il key advertising impone
al titolare del marchio un onere probatorio più intenso, con ulteriori
difficoltà nel caso in cui si cerchi una tutela inibitoria e raramente si
restituisce integralmente il danno subito al titolare azzerando totalmente il
vantaggio competitivo abusivamente ottenuto.
Con riferimento al caso Google France citato poco sopra, la
Corte di Giustizia ha analizzato la condotta dell'Azienda americana e ha
ritenuto che: a) non si possa affermare che Google effettua un utilizzo
commerciale del marchio altrui mettendo in vendita le keywords per la
realizzazione di campagne pubblicitarie; b) la comparsa del link sponsorizzato
non impedisce la comparsa del link del titolare del marchio, in modo gratuito,
tra i primi risultati di ricerca e
pertanto non si realizza un pregiudizio alla funzione pubblicitaria a favore
del titolare; c) il servizio di Google è riconducibile all' hosting quando la
società fornitrice riveste un ruolo del tutto passivo, limitandosi a mettere a
disposizione degli inserzionisti strumenti automatizzati per la creazione degli
annunci e, dunque, si applica l'art. 14 della Direttiva 2000/31/CE in base al
quale i fornitori di hosting non possono essere ritenuti responsabili per le
informazioni memorizzate sui propri server, a meno che, essendo venuto a
conoscenza dell'illiceità del loro contenuto, non si sia attivato prontamente
per rimuoverli o per disabilitare l'accesso agli stessi.
Dott.ssa Camilla Ragazzi
[1] È il caso cd. "Google France" in cui la Corte di Giustizia ha riunito tre casi: Caso C-236/08, Google France SARL vs. Louis Vuitton Malletier SA, Caso C-237/08, Google France SARL vs. Viaticum SA, Luteciel SARL, Caso C-238/08, Google France SARL vs. Centre national de recherche en relations humaines (CNRRH) SARL, Pierre-Alexis Thonet, Bruno Raboin, Tiger SARL
[2] Corte di Giustizia, C-323/09