
Il contrasto sulla risarcibilità del danno non patrimoniale da perdita dell'animale d'affezione
A cura di Dott. Gennaro Ferraioli
Il danno non patrimoniale è quel pregiudizio subito da un soggetto ai propri interessi di natura personale.
La storia dell'istituto è travagliata, connessa alle remore verso la sua configurabilità da parte della risalente giurisprudenza, nonché al suo difficile inquadramento giuridico.
Per lungo tempo, l'opinione dominante ha inteso la norma ex art. 2059 c.c. in senso restrittivo: i pregiudizi non patrimoniali venivano, così, risarciti solo in conseguenza della commissione di una fattispecie di reato, in combinato disposto con l'art. 185, co. 2 c.p.
L'impostazione seguita, tuttavia, si mostrava inadeguata a fronte dei casi di lesione del diritto alla salute, bene costituzionalmente tutelato all'interno dell'art. 32 Cost.
In particolare, venivano sottolineati due aspetti critici.
In primo luogo, non ogni offesa al bene salute riceveva adeguata tutela all'interno del sistema penale, espressamente fondato sul principio di frammentarietà.
In secondo luogo, la ricostruzione era aggravata dal necessario rispetto, anche in sede civile, del rigore probatorio proprio dell'accertamento penale, nonché del convincimento dell'autorità giudiziaria "oltre il ragionevole dubbio".
A tali criticità si è tentato di sopperire dapprima attraverso il tentativo di ricondurre le ipotesi di danno alla salute all'interno della norma di cui all'art. 2043 c.c., la quale veniva ritenuta maggiormente duttile sul piano applicativo.
Solo in un secondo momento, grazie all'apporto sia della giurisprudenza costituzionale, che di quella di legittimità, i danni non patrimoniali hanno ricevuto una compiuta disciplina.
Il quadro delineato, tuttavia, è complesso e in costante evoluzione, fondandosi su una serie di pronunce cardinali succedutesi negli anni.
Il primo principio affermato, valido ancor oggi, si fonda su di un'interpretazione lata del termine "legge" e consente una netta distinzione tra gli àmbiti riferimento degli articoli 2043 e 2059 c.c.
La nuova visione preferisce una accezione estensiva, di modo che al danno non patrimoniale vengano ricondotte tutte le lesioni ai diritti fondamentali dell'individuo che siano previsti e tutelati in Costituzione; tale categoria riceve, in questo modo, una propria autonomia e dignità applicativa, e viene qualificata come "ampia, comprensiva di ogni ipotesi in cui sia stato leso un valore inerente alla persona" (Cassazione. civ., sez. III, n. 8828 del 2003).
Un ulteriore passo in avanti viene compiuto nel 2008, con le pronunce a Sezioni Unite di San Martino.
La Corte di legittimità fornisce una nozione di danno non patrimoniale unitaria e idonea a ricomprendere le singole voci di lesione. In tal modo, l'istituto non è ritenuto suscettibile di essere frazionato in sottocategorie, le quali mantengono una pura valenza descrittiva.
Il principio di diritto così affermato sembra venire superato nel 2019, quando la giurisprudenza della Terza Sezione civile ha inteso differenziare, sul piano ontologico, tra danno biologico, inteso come lesione all'integrità psico-fisica del soggetto, e danno morale, corrispondente alla sofferenza interiore.
La separazione delle due voci ha consentito anche la distinzione con il danno dinamico-relazionale, realizzato quando la menomazione causa conseguenze anomale e peculiari.
In definitiva, il danno non patrimoniale permette la risarcibilità di tutte quelle lesioni che attengano alle alterazioni negative degli aspetti personali della vita, le quali ricevano una tutela costituzionale o comunque una compiuta previsione legislativa.
All'interno di tale quadro, è sorto il dubbio sulla configurabilità del risarcimento del danno non patrimoniale, nella sua componente di danno morale, subìto in occasione della perdita dell'animale di affezione.
È necessario anticipare come la tutela degli animali d'affezione sia stata oggetto di varie novelle, frutto di una maggiore attenzione verso la materia in sede unionale. Si segnala, infatti, la Dichiarazione universale dei diritti degli animali del 1978, ovvero la Convenzione europea per la protezione degli animali da compagnia del 1987.
Un primo intervento è individuato nella legge n. 281 del 1991, c.d. "legge quadro in materia di animali di affezione e prevenzione del randagismo", il cui fine è chiaro già dalla lettera dell'art. 1, che si propone di "favorire la corretta convivenza tra uomo e animale".
Dalla lettura del tessuto normativo è possibile desumere come il legislatore manchi di fornire un elenco tassativo degli animali considerati "di affezione", la stessa rubrica dell'art. 2 lascia intendere che si tratti di una categoria aperta, soggetta al comune sentire.
Si segnala l'intervento riformatore attuato con legge n. 189/2004, il quale ha aggiunto il Titolo IX-bis al Libro II del codice penale, disciplinante i delitti contro il sentimento degli animali.
La legge sembra essere orientata verso l'attribuzione di una dimensione emotiva al rapporto di affetto tra l'uomo e il proprio animale da compagnia; l'impostazione porta alla nascita di una corrente intesa a fornire allo stato d'animo interiore nascente dal rapporto stesso una tutela ricompresa nell'art. 2059 c.c.
Proprio in riferimento a tali considerazioni, è sorto un contrasto tra la posizione della giurisprudenza di legittimità e quella di merito.
L'attuale contesto vede i giudici di legittimità esprimere un preciso dictum, il quale non sembra ammettere interpretazioni difformi. Il Supremo Collegio afferma che la perdita dell'animale d'affezione non realizza una specie di danno consequenziale alla lesione di un interesse dell'individuo costituzionalmente tutelato.
Nella stessa pronuncia di San Martino, la n. 26973 del 2008, le Sezioni Unite hanno chiaramente precisato come il "rapporto, tra l'uomo e l'animale, (sia) privo, nell'attuale assetto dell'ordinamento, di copertura costituzionale".
Tale orientamento, a ben vedere, non nega la risarcibilità in senso assoluto, ma la ammette a precise condizioni. Infatti, sostiene la risarcibilità del danno nel caso in cui la condotta lesiva abbia rilevanza penale, poiché la previsione espressa di reato consente il rispetto del principio di tipicità; ovvero la ammette qualora dalla lesione del rapporto sia originato uno scompenso accertabile dalla scienza medica.
In altri termini, in assenza di alcun fondamento costituzionale del bene leso, la "semplice" sofferenza morale non può fondare un danno suscettibile di ristoro ex art. 2059 c.c.
La corrente opposta, invece, muove una seria critica, fondando le proprie conclusioni sul sentire comune e sull'evoluzione della sensibilità umana. Questa posizione è fatta propria soprattutto dalla giurisprudenza di merito, vedasi, ad esempio, la recente pronuncia n. 51 del 25 gennaio 2025 del Tribunale di Prato.
Con tale arresto, la Corte si discosta espressamente dalla giurisprudenza che qualifica come "futile la perdita dell'animale di affezione, in quanto non integrante un'offesa grave a un diritto della persona costituzionalmente garantito".
Attraverso un richiamo a sentenze conformi a una "lettura contemporanea delle abitudini sociali e dei relativi valori" (vedasi Trib. Pavia, sez. III civ., 16 settembre 2016, n. 1266; Trib. Vicenza, 3 gennaio 2017, n. 24; Trib. La Spezia sez. I, 31/12/2020, n. 660), l'autorità giudiziaria ritiene che la perdita dell'animale da compagnia determini "la lesione di un interesse della persona alla conservazione della propria sfera relazionale-affettiva, costituzionalmente tutelata attraverso l'art. 2 Cost., in quanto il rapporto tra padrone e animale d'affezione costituisce occasione di completamento e sviluppo della personalità individuale".
Il contrasto esaminato sulla risarcibilità del danno non patrimoniale da perdita dell'animale di affezione sembra lontano dall'essere sopito.
Se è, da un lato, vero come lo stesso sia comunque risarcibile laddove ricorrano le specifiche ipotesi di reato previste dalla legge, nonché qualora la perdita abbia generato una lesione psicofisica, temporanea o permanente, accertabile in sede medico-legale, dall'altro, tale attrito viene utilizzato da una parte di giurisprudenza e dottrina allo scopo di spingere la Corte di legittimità a un ripensamento delle proprie posizioni.