La rinuncia abdicativa della proprietà immobiliare

04.10.2025

Cass. Civ, Sezioni Unite, 11 agosto 2025, n. 23093

Dott. Gennaro Ferraioli

Massima: La rinuncia alla proprietà immobiliare è atto unilaterale e non recettizio, la cui funzione tipica è soltanto quella di dismettere il diritto, in quanto modalità di esercizio e di attuazione della facoltà di disporre della cosa accordata dall'art. 832 cod. civ., realizzatrice dell'interesse patrimoniale del titolare protetto dalla relazione assoluta di attribuzione, producendosi ex lege l'effetto riflesso dell'acquisto dello Stato a titolo originario, in forza dell'art. 827 cod. civ., quale conseguenza della situazione di fatto della vacanza del bene. Ne discende che la rinuncia alla proprietà immobiliare espressa dal titolare "trova causa", e quindi anche riscontro della meritevolezza dell'interesse perseguito, in sé stessa, e non nell'adesione di un "altro contraente".

Le SS.UU., con la pronuncia in esame, risolvono la questione circa la ammissibilità della rinuncia abdicativa al diritto di proprietà vantato verso fondi inservibili e privi di valore economico.

La rinuncia abdicativa al diritto di proprietà su beni immobili ha la funzione di consentire al proprietario di liberarsi da obbligazioni, oneri o diritti altrui gravanti sulla res, e si distingue da quella traslativa, in cui la proprietà viene acquisita da un soggetto terzo dietro pagamento.

Le Sezioni Unite, in primo luogo, concentrano la loro attenzione "sulla portata del <>, enunciato dall'art. 832 del Codice civile, e sulla configurabilità di un <>, da rinvenire nella legge, a norma dell'art. 42, secondo comma della Costituzione".

L'art. 42 Cost., 2° co., prevede che "La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale". La stessa Corte costituzionale, con la pronuncia n. 348 del 2007, ha posto la norma in combinato con l'art. 2 della Carta fondamentale, in riferimento all'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà economica e sociale.

Tali premesse danno adito al dubbio di legittimità di quelle disposizioni che consentono un progressivo abbandono e deperimento della res.

Le Sezioni Unite fugano i suddetti dubbi, affermando che "dalla cornice ordinamentale non emerge un generale potere-dovere del proprietario di esercitare i suoi poteri in maniera <funzionale> al sistema socio-economico: il godimento del bene resta forma di esercizio del diritto di proprietà appartenente al titolare per il soddisfacimento di un interesse patrimoniale da lui disponibile".

La Corte, dunque, rileva la libertà del dominus di disporre del proprio bene in virtù di valutazioni patrimoniali "egoistiche".

Invece, la Corte di legittimità esclude la rilevanza del dibattito sulle fattispecie del c.d. abbandono liberatorio, poiché "si caratterizzano per il tratto distintivo del perseguimento di una funzione che va oltre l'abdicazione e consiste nella liberazione da un'obbligazione connessa alla cosa" e che incidono, inevitabilmente, nella sfera giuridica di un altro soggetto del rapporto reale.

L'abbandono liberatorio realizza "prioritariamente" una funzione non già abdicativa, bensì satisfattiva delle obbligazioni che sono a carico del soggetto rinunciante, con la particolarità che viene perseguita attraverso una vicenda estintiva e non traslativa di una posizione giuridica soggettiva complessa.

Dopo averne consentito l'ammissibilità, la Suprema Corte si concentra sulla natura formale.

La rinuncia ha natura di "atto essenzialmente unilaterale".

Al carattere di unilateralità non si accompagna quello della recettizietà, in virtù del fatto che la dichiarazione di rinuncia realizza un interesse individuale, esclusivamente diretto a dismettere la proprietà del bene.

La Corte specifica come la "dichiarazione va manifestata nel mondo esterno perché produca il suo effetto mediante atto pubblico o scrittura privata e va trascritta perché sia opponibile a determinati terzi, ma non deve rivolgersi ad una determinata persona perché ne abbia conoscenza, seppure si tratti di persona interessata alla rinuncia".

La dichiarazione va trascritta ex art. 2643, n. 5, c.c. (ove si parla di atti <>, al pari dell'art. 1324 c.c.), l'adempimento non produce effetti costitutivi, né svolge la funzione di dirimere i conflitti tra più acquirenti a titolo derivativo dal medesimo dante causa.

L'acquisto da parte dello Stato, infatti, avviene a titolo originario come effetto riflesso, ma legislativamente automatico, della rinuncia abdicativa. Una volta acquistato, il bene entra a far parte del patrimonio disponibile.

L'adempimento della formalità da parte del dichiarante, allora, si spiega per l'operatività del principio di continuità e per l'esigenza di tutela dell'affidamento dei terzi.

La Corte, inoltre, richiama un precedente della Consulta (sentenza n. 160/2024) secondo cui "la sorte di un diritto reale minore non è in sé pregiudicata dalla natura originaria dell'acquisto, bensì dipende dalla funzione di quest'ultimo e da come viene regolamentato dal legislatore". L'affermazione di principio consente che l'acquisto a titolo originario di un bene non è ostativo alla permanenza dei diritti reali di godimento o di garanzia gravanti sull'immobile, né estingue le iscrizioni e trascrizioni preesistenti.

Si è detto come l'atto unilaterale di dismissione non sia recettizio, per cui il mancato assolvimento dell'onere comunicativo verso lo Stato non inficia la validità e l'efficacia della rinuncia. L'omissione, tuttavia, non è scevra da conseguenze, trattandosi di regola di comportamento, può essere fonte di responsabilità e lo Stato può rivalersi sul privato per le obbligazioni sorte a suo carico ma a sua insaputa.

A questo punto, la Corte si concentra sul carattere della meritevolezza causale della proprietà immobiliare. In primis, rigetta i dubbi sulla atipicità dell'atto, i quali condurrebbero al suo implicito divieto da parte del Legislatore.

Il vigente regime ordinamentale di appartenenza dei beni, sebbene non attribuisca al proprietario un dominio assoluto e illimitato, non pone in maniera espressa restrizioni o, addirittura, un divieto di rinuncia.

In secondo luogo, sul piano causale, osserva che l'unico interesse ad acquisire rilievo giuridico è quello del dichiarante e in esso stesso l'atto trova la propria giustificazione causale (e, dunque, la sua meritevolezza).

In merito, invece, ai profili di irrinunciabilità, le Sezioni Unite precisano un particolare aspetto.

Poiché l'art. 2 Cost. non giustifica "anche l'imposizione della proprietà privata in sé", non si può riconoscere un carattere di intrinseca irrinunciabilità al diritto. L'irrinunciabilità, infatti, condannerebbe il proprietario a sacrificare in modo illimitato e perpetuo il proprio potere di "realizzare il valore del bene e di attuare l'interesse patrimoniale a sceglierne la destinazione economica".

Le SS.UU., inoltre, non ritengono di poter utilizzare l'intangibilità della sfera giuridica altrui come limite al diritto del proprietario.

Il principio non opera poiché non si tratta di un'attribuzione traslativa di diritti reali in senso pregiudizievole verso i terzi "in maniera che costoro possano risentire un potenziale pregiudizio per gli oneri o gli obblighi di custodia e di gestione discendenti dalla titolarità degli «iura in rem»". In altri termini, l'atto di rinuncia non è riconducibile nello schema di cui all'art. 1333 c.c.

Il principio non può neppure operare alla luce delle categorie degli atti emulativi e dell'abuso del diritto.

La Corte, a questo punto, si interroga sulla eventualità che la rinuncia costituisca un modo per "incidere artatamente sul regime della responsabilità aquiliana derivante dalla proprietà immobiliare". La responsabilità per fatti illeciti origina per via della disponibilità che il proprietario ha della res, la quale gli consente l'esercizio del potere–dovere di intervento al momento in cui si è verificato il danno, e persiste per quei fatti anche in caso di rinuncia abdicativa. Lo Stato, infatti, "diviene vincolato propter rem per i soli obblighi gestori sorti dopo la rinuncia, mentre le responsabilità risarcitorie sorte anteriormente restano a carico del rinunciante".

La rinuncia abdicativa, dunque, non opera in elusione del regime di responsabilità civile.

In merito agli effetti e alle conseguenze dell'atto, in prima istanza, effetto essenziale ed immediato è la dismissione del diritto dalla sfera giuridica del titolare. L'acquisto da parte dello Stato ex art 827 c.c., invece, è un effetto riflesso, che trova causa nella dismissione stessa.

La Corte passa alla disamina storico-teleologica della norma, l'art. 827 c.c., secondo cui "i beni immobili che non sono in proprietà di alcuno spettano al patrimonio dello Stato", è una "fattispecie produttiva di un effetto giuridico conseguente ad una determinata situazione di fatto, quale la vacanza del bene immobile, ovvero come ipotesi di acquisto "a carattere chiaramente originario", a differenza dell'acquisto iure successionis, e quindi a titolo derivativo, dei beni (immobili, mobili e crediti) in caso di devoluzione dell'eredità allo Stato per mancanza di altri successibili, ai sensi dell'art. 586 cod. Civ.".

Nello stesso senso, la Suprema Corte afferma che "l'acquisizione al patrimonio disponibile dello Stato trova il proprio titolo costitutivo nella vacanza, e non nella rinuncia".

La norma è stata inserita nel codice del 1942 per ragioni di certezza giuridica delle posizioni immobiliari, al fine di colmare una lacuna del codice previgente del 1865, la quale aveva dato adito a dubbi e soluzioni diverse circa i beni immobili che non sono di proprietà di alcuno.

In maniera netta, le Sezioni Unite danno un'applicazione estensiva dell'art 827 c.c., affermando che la disposizione "è una regola di attribuzione allo Stato di tutti gli immobili non appartenenti ad alcuno, senza che rilevi che si tratti, o meno, di beni abbandonati da un precedente titolare, o di beni produttivi, o di beni aventi un residuo valore di mercato".

Quanto detto, puntualizza la Corte, non impedisce che il Legislatore possa intervenire al fine di rimodulare la norma per trovare un diverso assetto di equilibrio nei rapporti tra pubblico e privato, nonché per operare una riforma di sistema sul regime dei beni immobili vacanti e del loro correlato acquisto al patrimonio dello Stato.

L'acquisizione al patrimonio pubblico si spiega non per il principio di autorità, ma in virtù dei valori essenziali della comunità, in particolare quelli di governo del territorio, quelli paesaggistici, ambientali, archeologici e di prevenzione dei rischi geologici, idrogeologici e sismici, e, prima ancora, in materia di «sicurezza», quelli collegati alla tutela dell'interesse generale alla incolumità delle persone. Tale nucleo di valori si impone in capo ad ogni proprietario, senza che sia influenzato dal venir meno dell'interesse del proprietario rinunciante e dalla soggezione dello stesso agli oneri relativi, allo stesso modo non è neppure temperato da verifiche caso per caso circa la convenienza economica dell'acquisto statale.

Infatti, se il fondamento della irrinunciabilità della proprietà immobiliare viene fondato sulle asserite prevalenti ragioni di tutela dell'interesse generale, non viene tuttavia provato come la proprietà "imposta" garantisca in modo migliore l'interesse della collettività.

Nella stessa direzione, le Sezioni Unite osservano come sia la rinuncia del proprietario, che l'acquisto dello Stato hanno una propria rilevanza poiché realizzano "interessi che costituiscono un prius rispetto alla qualificazione giuridica delle rispettive fattispecie, prescindendo dal fatto che abbiano ad oggetto un bene utile, o profittevole, in termini di valore economico puramente soggettivo, e che l'uno e l'altro abbiano un plausibile interesse, rispettivamente, a dismetterlo e ad acquisirlo e conservarlo".

In conclusione, la Suprema Corte pone in relazione l'atto unilaterale di rinuncia con il solo interesse patrimoniale del proprietario, e lo inserisce tra le facoltà di disposizione piena ed esclusiva della cosa, ex art. 832 c.c.

Visto quanto detto, la rinuncia non incontra ad alcun limite di legge, il quale opererebbe solo a fronte di un diretto controinteressato che possa impedire il prodursi dell'effetto abdicativo.

L'atto, dunque, è meritevole in riferimento al "potere dominicale di scegliere la destinazione economica da imprimere alla cosa e di utilizzarla in modo oggettivamente apprezzabile".

L'Autorità giudiziaria non può neppure rilevarne la nullità virtuale per violazione di norma imperativa per contrasto con il precetto dell'art. 42 Cost. in combinato disposto con l'art. 2 Cost., questo perché la norma costituzionale porta una riserva di legge relativa, la quale rappresenta un indirizzo da seguire per il Legislatore. In altri termini, "le limitazioni della proprietà, preordinate ad assicurarne la funzione sociale, possono essere stabilite solo dal legislatore, e non dal giudice".

La sentenza a Sezioni Unite esaminata rappresenta un decisivo intervento sulla questione della rinuncia alla proprietà, la Corte non solo qualifica l'atto e ne descrive gli effetti giuridici, ma riafferma la centralità del principio di autodeterminazione del proprietario nella gestione del proprio diritto.

La pronuncia, tuttavia, chiarisce come il principio non sia assoluto e inderogabile, così facendo apre lo spazio, anzi, sotto certi aspetti pone un preciso invito, al Legislatore al fine di intervenire con una riforma organica che regoli i rapporti e bilanci gli interessi economici dei privati con la funzione sociale della proprietà.