I limiti del diritto di cronaca nei casi di erronea attribuzione della qualifica di imputato e di descrizione dei fatti penalmente rilevanti.

22.11.2025

Cass. civ. Sez. Un., 18 maggio 2025 n.13200

Massima: In tema di diffamazione a mezzo stampa, l'esimente del diritto di cronaca giudiziaria, qualora la notizia sia mutuata da un provvedimento giudiziario, non è configurabile ove si attribuisca ad un soggetto, direttamente o indirettamente, la falsa posizione di imputato, anziché di indagato, salvo che il giudice del merito accerti che il contesto della pubblicazione sia tale da mutare, in modo affatto chiaro ed inequivoco, il significato di quegli addebiti altrimenti diffamatori.

A cura di Avv. Beatrice Donati

La sentenza n. 13200/2025 delle Sezioni Unite civili della Corte di Cassazione offre un chiarimento essenziale sul confine tra legittimo esercizio del diritto di cronaca giudiziaria e lesione del diritto all'onore, alla reputazione e all'immagine.

Il caso esaminato trae origine da un articolo pubblicato nel 2013 sull'edizione online di un settimanale nazionale, nel quale veniva attribuita a un noto banchiere la qualità di imputato per una truffa milionaria, quando invece, all'epoca dei fatti, egli risultava solamente indagato per un tentativo di truffa.[1]

A fronte di tale rappresentazione, l'interessato conveniva in giudizio il giornalista autore dell'articolo, il direttore responsabile e l'editore, lamentando la natura diffamatoria della notizia divulgata. Dopo il rigetto della domanda in primo grado, la Corte d'appello di Roma accoglieva l'impugnazione, riconoscendo la lesione dell'immagine professionale e ordinando un risarcimento del danno non patrimoniale pari ad € 25.000, una sanzione pecuniaria ex art. 12 della legge sulla stampa[2] a carico del giornalista per 5.000 euro, e la pubblicazione della sentenza per estratto.

A seguito del ricorso in Cassazione, la Prima Sezione civile ha ravvisato l'esistenza di un contrasto giurisprudenziale, rimettendo la questione alle Sezioni Unite.

Il nodo interpretativo riguarda la portata dell'esimente del diritto di cronaca giudiziaria in presenza di notizie giornalistiche che attribuiscono, erroneamente, la qualifica di imputato a soggetti che sono solo indagati, o che riferiscono di un reato consumato laddove si tratta di un tentativo.[3]

La sentenza esamina tale tema con ampiezza di argomentazione, affrontando sia il profilo teorico dei diritti in gioco, sia le ricadute pratiche sul piano della responsabilità civile e del risarcimento.

Le Sezioni Unite ribadiscono che il diritto di cronaca rappresenta un'espressione qualificata della libertà di manifestazione del pensiero tutelata dall'art. 21 della Costituzione, ma ne delimitano l'operatività richiamando il principio del cosiddetto "giornalismo responsabile", che impone, tra l'altro, il rispetto della verità putativa.[4] Tale forma di verità, accettata in giurisprudenza per contemperare esigenze di tempestività informativa e tutela della reputazione, esige tuttavia che il giornalista dimostri di aver agito con diligenza professionale, verificando le fonti e l'attualità della notizia.[5] In difetto, l'informazione errata non può essere scriminata.

Nel contesto della cronaca giudiziaria, la Corte richiama l'ulteriore principio della presunzione di non colpevolezza, sancito dall'art. 27 della Costituzione.[6] Ne deriva che la narrazione giornalistica deve essere coerente con lo stato effettivo del procedimento penale e con la qualificazione giuridica della posizione dell'interessato.

In particolare, si afferma che l'attribuzione della qualità di imputato a un soggetto che è solo destinatario di un avviso ex art. 415-bis c.p.p. non può considerarsi una semplice inesattezza, poiché altera la percezione pubblica della vicenda, creando una rappresentazione processuale più grave e consolidata di quanto non sia nella realtà. [7]

L'elemento informativo riferito all'avvenuto rinvio a giudizio non è neutro, ma determina un mutamento di status, con effetti immediati sulla reputazione della persona coinvolta. Il pubblico, che riceve l'informazione tramite strumenti di comunicazione rapidi e sintetici, come i titoli delle testate online, tende a percepire una maggiore probabilità di colpevolezza in presenza di un rinvio a giudizio formale rispetto a un semplice avviso di conclusione delle indagini.[8] Per tale ragione, la Corte individua nel "lettore frettoloso" il paradigma di riferimento per la valutazione dell'offensività dell'informazione.[9]

Nel caso concreto, la Corte ha ritenuto che la descrizione pubblicata, contenente l'attribuzione del reato di truffa consumata anziché tentata e della qualità di imputato in luogo di indagato, integrasse una rappresentazione distorta dei fatti, tale da superare la soglia della tollerabilità e configurare la lesione del diritto all'onore e alla reputazione.[10] L'errore non poteva considerarsi secondario né scusabile, anche perché non risultava supportato da una verifica diligente delle fonti.[11]

Per quanto riguarda il risarcimento, la Corte d'appello aveva già applicato le tabelle del Tribunale di Milano per la liquidazione del danno non patrimoniale, tenendo conto della diffusione della testata, della notorietà del soggetto leso, della gravità dell'addebito e dell'esistenza di un'indagine a suo carico. L'importo riconosciuto, pari a 25.000 euro, risulta coerente con i criteri usualmente adottati in giurisprudenza per i casi di diffamazione a mezzo stampa.

A tale somma si è aggiunta la sanzione pecuniaria prevista dall'art. 12 della legge n. 47/1948, applicabile quando la pubblicazione è frutto di dolo o colpa grave.[12] La condanna alla pubblicazione dell'estratto della sentenza risponde invece a una funzione riparatoria e informativa, volta a ristabilire la verità dei fatti e a garantire un'informazione corretta nei confronti della collettività.

Con questa decisione, la Corte ha quindi tracciato un limite netto alla possibilità, per i mezzi di informazione, di anticipare o semplificare in modo improprio lo sviluppo di una vicenda giudiziaria, soprattutto quando vi sia il rischio di presentare come colpevole chi si trova ancora in una fase meramente procedimentale.

Il principio di verità, anche se in forma putativa, continua a rappresentare un elemento imprescindibile del diritto di cronaca.

L'inesattezza fattuale non è di per sé irrilevante, ma diventa diffamatoria quando incide sulla percezione pubblica della persona coinvolta, creando un pregiudizio indebito alla sua immagine.

In sintesi, le Sezioni Unite hanno confermato che il giornalista non può sostituirsi all'autorità giudiziaria nella qualificazione delle posizioni processuali. La narrazione dei fatti deve attenersi alla realtà documentata, rispettando lo stato attuale del procedimento ed evitando sovrapposizioni tra reati tentati e consumati o tra status di indagato e imputato. Per chi si ritiene leso da una pubblicazione imprecisa o ingiustamente accusatoria, la sentenza fornisce strumenti chiari per tutelare la propria immagine, avvalendosi delle azioni civili risarcitorie e delle garanzie previste dalla legge sulla stampa.

Alla luce di quanto affermato, in presenza di notizie lesive, sarà necessario verificare il contenuto degli atti giudiziari effettivamente in essere e confrontarlo con la rappresentazione giornalistica. Solo in questo modo è possibile garantire un'effettiva tutela del diritto alla reputazione e promuovere, al tempo stesso, un'informazione seria, responsabile e conforme ai principi costituzionali.

[1] Cass. civ., Sez. un., 18 maggio 2025, n. 13200.

[2] Art. 12, legge 8 febbraio 1948, n. 47.

[3] Cass. civ., Sez. I, ord. interlocutoria n. 12239/2024.

[4] Corte EDU, Petikainen c. Finlandia, 20 ottobre 2015; Corte EDU, Hurbain c. Belgio, 4 luglio 2023.

[5] Cass. civ., Sez. I, sent. n. 12370/2018; Cass. pen., sent. n. 34544/2001.

[6] Art. 27, comma 2, Costituzione.

[7] Art. 415-bis c.p.p.; art. 60 c.p.p.

[8] Cass. civ., Sez. I, sent. n. 11769/2022.

[9] Cass. civ., Sez. III, sent. n. 12012/2017; Cass. pen., Sez. V, sent. n. 13017/2024.

[10] Cass. civ., Sez. I, sent. n. 13126/2024.

[11] Cass. civ., Sez. III, sent. n. 12903/2020.

[12] Cass. pen., Sez. V, sent. n. 15093/2020.