Disturbi della personalità: vizio totale o parziale di mente
Cass. pen. Sez. I, 27 agosto 2025, sentenza n. 29849
Massima: "Ai fini del riconoscimento del
vizio totale e parziale di mente, se è vero che anche i disturbi della
personalità, che non sempre sono inquadrabili nel ristretto novero delle
malattie mentali, possono rientrare nel concetto di infermità, è del pari certo
che tale approdo può dirsi soltanto quando essi siano di consistenza, intensità
e gravità tali da incidere concretamente sulla capacità di intendere e di
volere, escludendola o facendola grandemente scemare, e a condizione che
sussista un nesso eziologico con la specifica condotta criminosa, per effetto
del quale il fatto di reato si configuri causalmente determinato dal disturbo
mentale. Di conseguenza, non può ammettersi rilievo, ai fini dell'imputabilità,
ad altre anomalie caratteriali o alterazioni e disarmonie della personalità che
non presentino i caratteri sopra indicati, al pari degli stati emotivi e
passionali, salvo che questi ultimi non si inseriscano, eccezionalmente, in un
quadro più ampio d'infermità."
A cura di Avv. Sara Spanò
Nella sentenza in esame, la Corte di
Cassazione è stata chiamata a pronunciarsi su due questioni giuridiche.
La prima concerne la possibilità di ricomprendere i disturbi della personalità
nel concetto infermità mentale, rilevante ai fini del riconoscimento del vizio
totale o parziale di mente e, dunque, dell'imputabilità dell'agente.
La seconda riguarda, invece, la corretta interpretazione dell'aggravante
prevista per l'omicidio commesso nei confronti della persona stabilmente
convivente (art. 577, comma 1, n. 1, c.p.) e, conseguentemente, la sua corretta
contestazione in sede processuale.
Il tema dell'imputabilità previsto dall'art. 85 c.p. è un argomento abbastanza delicato che viene affrontato - a più riprese - sia in Dottrina che in Giurisprudenza.
Difatti, mancando l'imputabilità, il soggetto non può essere assoggettato a pena.
Agli artt. 88 c.p. e seguenti, sono previste, espressamente, alcune cause che escludono o diminuiscono l'imputabilità. Per effetto delle prime la capacità di intendere e di volere risulta del tutto esclusa, mentre quando ricorrono le seconde, essa, senza essere esclusa, risulta grandemente diminuita. Si tratta di condizioni di natura psicologica dipendenti da infermità mentali o anomalie e di natura tossica dipendenti da abuso di alcool o sostanze stupefacenti.
Quando si ha infermità di mente? Quando un soggetto è affetto da una malattia mentale al momento della commissione del fatto. In base al suo grado l'infermità può essere:
- Totale quando lo stato di alterazione è tale da escludere la capacità di intendere e di volere, in questo casa il soggetto non è imputabile (art 88c.p.) e si applica la misura di sicurezza del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziale;
- Parziale, quando la capacità di intendere e di volere è soltanto ridotta, in questo caso il soggetto fruirà di una diminuzione di pena (art. 89 c.p.)
La Suprema Corte, in linea con un orientamento ormai consolidato, ha stabilito che, anche i disturbi della personalità possono rientrare nel concetto di infermità mentale, ai fini del riconoscimento del vizio totale o parziale di mente.
Tuttavia, ciò è possibile solo al ricorrere di specifiche condizioni: i disturbi della personalità devono presentare una consistenza, intensità e gravità tali da incidere concretamente sulla capacità di intendere o di volere, fino a escluderla o comprometterla significativamente.
È, inoltre,
essenziale che sussista un nesso causale tra il disturbo e la condotta
criminosa, tale da rendere la patologia psichica causalmente determinante nella
commissione del reato.
Posto ciò, ai fini dell'imputabilità, non
assumono rilevanza le anomalie caratteriali, le alterazioni o le disarmonie
della personalità i c.d. raptus che
non presentino le suddette caratteristiche di gravità e incidenza sulla sfera
volitiva o intellettiva del soggetto. Lo stesso principio si applica per gli
stati emotivi e passionali che di base non escludono l'imputabilità, ma, a
parere degli Ermellini, i possono rilevare solo se inseriti in un più ampio
quadro di effettiva infermità mentale.
A riguardo, la Corte esaminando la seconda questione, relativa all'aggravante di cui all'art. 577, comma 1, n.1 c.p., preliminarmente, chiarisce che il concetto di "relazione affettiva" non deve essere confuso con quello di "stabile convivenza".
Invero, l'aggravante della stabile convivenza non è configurabile nei casi di coabitazione temporanea, ma presuppone – anche a seguito dell'interruzione del legame affettivo – che la vittima e l'aggressore abbiano condiviso, per un periodo di tempo significativo, abitudini di vita e continuino a condividere spazi comuni. Tale interpretazione trova fondamento, in primo luogo, nel dato letterale della norma: il legislatore, intervenendo sulla disposizione, ha sostituito la congiunzione "e" con la disgiuntiva "o", attribuendo così valore autonomo alla stabile convivenza, intesa come situazione di fatto distinta dal legame affettivo esistente tra le persone coinvolte.
L'intento della norma è, dunque, quello di offrire una maggiore tutela alla parte più debole, in un momento di particolare vulnerabilità. Questo obiettivo risulta ulteriormente confermato, sul piano logico e sistematico, dalla differente valutazione del disvalore penale attribuito all'omicidio commesso nei confronti della persona "già stabilmente convivente", anche qualora la convivenza sia cessata.
Fonti:
Cass. pen. Sez. I, 27 agosto 2025, sentenza n. 29849;
Manuale di diritto penale, parte generale ed. Simone 2025;
Il sistema del diritto penale, Dike Giuridica rivista online;
www.brocardi.it; codice penale.
