Esercizio arbitrario e interesse del terzo: la linea sottile con l’estorsione secondo il Tribunale di Milano
Trib. Milano, Sez. Pen., 24 febbraio 2025 (ud. 18 dicembre 2024), n. 15045
A cura di Dott. Domenico Ruperto
Massima: Integra il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, e non quello di estorsione, la condotta del terzo che, pur agendo con violenza o minaccia per il recupero di un credito effettivamente esistente (o ragionevolmente ritenuto tale), operi anche con l'aspettativa di una utilità personale, quale una ricompensa, sempre che la pretesa non ecceda i limiti del credito vantato e non sia strumentale al conseguimento di un profitto ingiusto o diverso da quello dovuto.
Nel delineare i confini tra il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni e quello di estorsione, il Tribunale di Milano ha recentemente chiarito un aspetto cruciale: anche quando un terzo intervenga per far valere un credito altrui, il solo fatto che agisca con l'aspettativa di un vantaggio personale — ad esempio una ricompensa — non è sufficiente a configurare l'estorsione, a condizione che l'azione resti proporzionata al credito vantato e non sia strumentale a finalità ulteriori e illecite.
Secondo quanto affermato nella pronuncia, si è in presenza del reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni quando la condotta del terzo — pur connotata da violenza o minaccia — è diretta al recupero di un credito effettivo (o comunque ritenuto tale con ragionevole buona fede), senza che la richiesta costituisca un pretesto per mascherare intenti illeciti o ottenere vantaggi indebiti.
Questa interpretazione si discosta dalla più rigida lettura offerta in passato dalle Sezioni Unite nella nota sentenza Filardo, secondo cui il terzo può essere chiamato a rispondere per esercizio arbitrario solo quando agisca esclusivamente nell'interesse del creditore, e non anche per finalità personali. Al contrario, il Tribunale meneghino accoglie un indirizzo più recente della giurisprudenza di legittimità — tra cui la sentenza della Cassazione Penale, Sez. II, n. 46097 del 15 novembre 2023 — secondo cui l'eventuale utilità perseguita dal terzo non trasforma automaticamente il fatto in estorsione, a meno che non si tratti di un profitto ingiusto realizzato a danno della vittima.
Il giudice milanese sottolinea che occorre distinguere chiaramente tra il dolo, inteso come volontà di commettere il fatto tipico, e il movente soggettivo dell'autore. L'interesse del terzo a ottenere un compenso non aggrava la condotta, né incide sulla tutela della persona offesa, la quale in genere non è neppure a conoscenza dell'accordo fra il creditore e chi agisce in sua vece.
La prospettiva adottata dal Tribunale evidenzia inoltre che ciò che rileva, per la qualificazione giuridica del fatto, è la sostanza della pretesa fatta valere. Se il debito esiste ed è determinato, e se la richiesta — anche formulata con toni duri o atteggiamenti intimidatori — resta nei limiti di tale credito, si resta nell'alveo dell'esercizio arbitrario, senza scivolare nell'estorsione.
La conclusione è netta: l'intervento del terzo, anche se motivato dal desiderio di ottenere una ricompensa o un vantaggio, non trasforma automaticamente la condotta in un'estorsione. Diversamente accade quando l'azione si risolve in un sopruso, una minaccia ingiustificata e finalizzata a ottenere qualcosa cui non si ha diritto. In quel caso, la posizione della vittima cambia radicalmente, passando da soggetto esposto a una richiesta magari discutibile, ma fondata, a vittima di un atto vessatorio e lesivo della propria libertà personale e patrimoniale.