Il reato di frode commerciale
Il reato di frode nell'esercizio del commercio è disciplinato all'art. 515 c.p. e incrimina la consegna all'acquirente di un aliud pro alio oppure di un bene mobile diverso per origine, provenienza, qualità o quantità da quello dichiarato ovvero pattuito nell'oggetto del contratto.
E ancora, con la norma in esame si tutela principalmente l'interesse dello Stato al leale e corretto esercizio degli scambi commerciali, attraverso cui vengono garantiti, in via secondaria ed accessoria, gli interessi patrimoniali dei singoli acquirenti.
Ed invero, nella struttura del reato non si fa alcuna menzione ad un eventuale consenso del compratore ad accettare un bene mobile diverso da quello dichiarato o pattuito.
La norma ha portata generale, dal momento che il soggetto attivo può essere chiunque eserciti un'attività commerciale o uno spaccio aperto al pubblico.
Dunque, ai fini della configurazione è sufficiente che l'attività criminosa si esplichi nell'esercizio di un atto obiettivamente commerciale (Cass. Pen., 14 marzo 2002, nr. 633) anche se l'attività stessa è esercitata illegalmente, temporaneamente ovvero occasionalmente. Di più.
Possono essere soggetti attivi del reato non soltanto il titolare della ditta, ma anche i dipendenti, i familiari, il rappresentante e il socio che rappresenti la ditta e che non abbia ingerenza nella consegna della merce essendo tenuti ad osservare e far osservare le disposizioni di leale e scrupoloso comportamento commerciale nonché a vigilare sull'osservanza delle disposizioni imperative concernenti gli aspetti dell'attività aziendale.
Diversamente, non può ritenersi soggetto attivo del delitto de quo il pubblico fornitore, giacché se quest'ultimo commette frode dovrà rispondere del reato di cui all'art.356 c.p.
La condotta tipica punita consiste nel consegnare all'acquirente un bene mobile - diverso dal denaro - non conforme a quello pattuito per origine[1], provenienza[2], qualità o quantità, indipendentemente dal fatto che l'agente abbia usato particolari accorgimenti per ingannare il compratore o dalla circostanza che quest'ultimo potesse facilmente rendersi conto, applicando normale attenzione e diligenza, della difformità tra merce richiesta e consegnata.
Tuttavia, se l'acquirente accettasse - espressamente o tacitamente - la cosa diversa da quella pattuita, il reato si configurerebbe lo stesso?
La sopracitata questione è dibattuta.
Al riguardo, la giurisprudenza maggioritaria ritiene che, perfezionandosi il reato con la consegna del bene all'acquirente, non abbia alcuna rilevanza la successiva ed eventuale accettazione del bene da parte del suddetto.
Secondo parte della dottrina, invece, la successiva accettazione da parte dell'accipiens, cioè persona offesa, comporterebbe l'esclusione del reato ai sensi dell'art. 50 c.p. Non solo.
Vi è chi sostiene che la consegna di cosa diversa al consumatore consapevole può determinare una novazione dell'accordo.
Invero, l'acquirente, cosciente della diversità, dimostra con un comportamento non equivoco di volere quel determinato bene, pertanto, la sua accettazione esclude che la consegna abbia per oggetto una cosa, nel genere o nella specie, diversa da quella che avrebbe dovuto essergli consegnata o diversa, in qualche modo, da quella dichiarata o pattuita.
Si profila, così, l'estinzione del rapporto sostitutivo, cessando di esistere il punto di riferimento rispetto a cui definire come diversa la cosa consegnata, la quale risulta, anzi, essere quella concordemente voluta dalle parti (Brocardi).
Tuttavia, poiché la ratio della norma ha lo scopo di garantire la lealtà e la correttezza degli scambi commerciali in un'ottica di tutela dell'economia pubblica, va da sé che il bene giuridico tutelato ha una portata superindividuale e indisponibile, pertanto, risulta del tutto ininfluente l'atteggiamento psicologico dell'acquirente, il quale non assume efficacia scriminante il consenso a ricevere una cosa diversa da quella dichiarata.
Nessun dubbio in dottrina circa la configurabilità del tentativo, ravvisabile allorquando risultino posti in essere fatti diretti in modo non equivoco alla consegna della merce, senza che questa si realizzi.
La Cassazione, infatti, ha precisato che il tentativo di frode nell'esercizio del commercio non richiede, ai fini della sua configurabilità, l'effettiva messa in vendita del prodotto, essendo sufficiente l'accertamento della destinazione alla vendita del prodotto diverso per origine, provenienza o qualità da quelle dichiarate o pattuite (Cass. Pen., 19 settembre 2013, nr. 41699; conf. Cass. Pen., 7 febbraio 2013, nr. 11827).
Per quanto riguarda l'elemento soggettivo, il dolo è generico poiché è sufficiente la volontà di consegnare un bene diverso per specie, origine, provenienza ecc., senza che sia richiesto altro fine i particolari modalità persuasive.
Infine, il delitto in esame ha natura sussidiaria, cioè sussiste solo se non è configurabile un reato più grave.
La truffa, per esempio, è il reato con cui la frode in commercio presenta la maggior affinità, ma differiscono perché nella prima fattispecie l'inganno - conseguenza degli artifizi o raggiri - deve porsi come causa determinante del consenso della vittima, mentre nella frode di cui si tratta l'inganno si verifica successivamente alla conclusione del contratto, cioè al momento della sua esecuzione.
[1] Per diversità di origine deve intendersi una cosa prodotta in un luogo geografico diverso rispetto a quello indicato quando il medesimo attribuisce al bene particolare apprezzamento per le qualità o la bontà del prodotto e diventa decisivo per la scelta del consumatore.
[2] Per diversità di provenienza s'intende l'indicazione sulla confezione del prodotto di un'azienda di produzione diversa da quella originaria.