Il cortocircuito del diritto di difesa nella chiamata in reità e correità de relato

18.05.2022

Ogni ordinamento giuridico si regge necessariamente sul bilanciamento tra beni giuridici i cui titolari sono diversi. In questi confronti tra diritti, un diritto finisce inevitabilmente per prevalere sull'altro. Uno schema del tutto analogo si riscontra nel caso di chiamata in reità o correità de relato con fonte di conoscenza individuata nell'imputato in quel procedimento o in un procedimento connesso.

Nelle predette ipotesi, il diritto dell'imputato a confrontarsi con i propri accusatori rimane compresso, al fine di tutelare il diritto di difesa dello stesso imputato o la facoltà di rimanere in silenzio dell'imputato nel procedimento connesso. Per comprendere le ragioni sottese a tale bilanciamento, è opportuno muovere da alcune considerazioni preliminari.

Normalmente, il compendio probatorio si sostanzia nelle dichiarazioni di soggetti completamente estranei[1] ai fatti di causa. Si pensi al caso di Tizio che, in occasione di una passeggiata per le vie del centro, assiste del tutto causalmente all'omicidio di Caio ad opera di Sempronio. In questo esempio, Tizio è completamente estraneo alle dinamiche dell'omicidio, ma ne ha avuto comunque percezione diretta.

In altri casi, accade che il soggetto che rende dichiarazioni nel processo sia coinvolto, più o meno direttamente, nei fatti di causa. Può darsi, infatti, che il soggetto dichiarante sia imputato in un procedimento connesso, ai sensi dell'art. 12 c.p.p., o probatoriamente collegato, ai sensi dell'art. 371, comma 2, lett. b), c.p.p. Si è soliti riferirsi a questi casi con il termine di chiamata in correità, se il dichiarante ha commesso il fatto di reato in concorso con l'imputato, di chiamata in reità, negli altri casi[2].

In queste ipotesi, il legislatore stabilisce una presunzione di dubbia attendibilità dei dichiaranti all'art. 192, commi 3 e 4, c.p.p., in ragione del loro coinvolgimento nei fatti di causa. In particolare, il legislatore pretende che il giudice del caso concreto valuti l'attendibilità delle dichiarazioni del dichiarante alla luce di «altri elementi di prova[3]».

Il coinvolgimento del chiamante in reità o correità nei fatti di causa comporta la necessità di bilanciare la tutela della facoltà di rimanere in silenzio del chiamante con l'esigenza di acquisire a processo tutti i dati conoscitivi necessari per addivenire ad una decisione quanto più prossima alla verità storica. Tale bilanciamento si sostanzia nella testimonianza assistita di cui all'art. 197-bis c.p.p. e nell'esame di persona imputata in procedimento connesso, di cui all'art. 210 c.p.p.

Se già la chiamata in reità o correità è un istituto che presenta problematiche e caratteristiche peculiari[4], ancor più complesso risulta l'istituto della chiamata de relato[5]. In questi casi, il chiamante non ha avuto percezione diretta del fatto, ma ne ha contezza in quanto a lui confidato da un terzo soggetto[6].

Ebbene, la giurisprudenza di legittimità ha affermato che non è sempre necessario escutere la fonte di conoscenza diretta per rendere utilizzabili le dichiarazioni rese de relato. Ciò avviene sia nel caso in cui la fonte di conoscenza sia l'imputato[7]; sia nel caso in cui la fonte di conoscenza coincida con un'altra persona imputata in un procedimento connesso o collegato.

Nella prima situazione, si può affermare che il diritto dell'imputato a confrontarsi con i propri accusatori entra in contrasto con la facoltà dello stesso imputato di mentire e di rimanere in silenzio. In questi casi, la soluzione potrebbe essere quella di condizionare l'utilizzabilità delle dichiarazioni del chiamante alla escussione dell'imputato, quale fonte diretta di conoscenza. Perciò, si dovrebbe condurre coattivamente l'imputato in aula, affinché quest'ultimo testimoni o si avvalga della facoltà di rimanere in silenzio. Se si aderisse, però, a questa tesi, ne conseguirebbero almeno due complicazioni.

Innanzitutto, non esiste alcuna disposizione che riconosce al giudice il potere di ordinare la comparizione coatta dell'imputato per rendere esame[8]. Infatti, l'esame dell'imputato può essere svolto solo con il consenso di quest'ultimo, a norma dell'art. 208 c.p.p. Inoltre, l'imputato potrebbe rendere a proprio piacere inutilizzabili le dichiarazioni rese dai chiamanti, semplicemente riferendo di non aver mai confessato il proprio coinvolgimento nei fatti di causa. Infatti, a differenza di un testimone, un imputato non è gravato da alcun obbligo di dire la verità.

Nel caso in cui la fonte di conoscenza sia un altro imputato, si verifica un contrasto tra il diritto dell'imputato a confrontarsi con i propri accusatori e la facoltà dell'imputato in altro procedimento connesso o collegato di rimanere in silenzio.

A differenza di quanto precedentemente visto, il nostro ordinamento prevede il potere in capo al giudice di ordinare la comparizione di tale persona. Di conseguenza, tale potere deve essere necessariamente esercitato, se richiesto dalla parte, pena l'inutilizzabilità delle dichiarazioni rese de relato. Tuttavia, se tale fonte di conoscenza compare ma si avvale della facoltà di rimanere in silenzio, le dichiarazioni rese de relato sono comunque utilizzabili[9].

Questa è la soluzione elaborata dalla giurisprudenza di legittimità, la quale ha esteso i casi, espressamente previsti dalla legge, al ricorrere dei quali la mancata escussione della fonte di conoscenza non implica l'inutilizzabilità delle dichiarazioni de relato. Secondo la giurisprudenza, tale soluzione non solo non sarebbe in contrasto con la Costituzione e la normativa sovranazionale, ma sarebbe anche conseguenza del principio del libero convincimento del giudice.

Se infatti l'art. 195, comma 3, c.p.p. considera utilizzabili le dichiarazioni de relato solamente nei casi di morte, infermità o irreperibilità della fonte di conoscenza, la giurisprudenza ha affermato che le medesime conseguenze si verificano anche nelle ipotesi di impossibilità oggettiva di escutere tale fonte. In tale categoria rientrerebbero tutti i casi in cui la fonte ha diritto a rimanere in silenzio.

In parole povere, la giurisprudenza ha ricondotto a sistema le problematiche connesse a un vero e proprio cortocircuito del diritto di difesa. Infatti, nel caso in cui la fonte di conoscenza sia l'imputato, è il suo stesso diritto di difesa­ sotto forma di diritto a confrontarsi con il proprio accusatore e a rimanere in silenzio a generare le predette complicazioni. Nel diverso caso in cui la fonte di conoscenza sia una persona imputata in altro procedimento connesso, le complicazioni sorgono dallo scontro tra due diritti di difesa: da un lato, quello dell'imputato in quel procedimento; dall'altro lato, quello della persona imputata in procedimento connesso.

La soluzione elaborata dalla giurisprudenza non ha però incontrato il plauso dei commentatori[10]. Infatti, come precedentemente indicato, si finisce inevitabilmente per sacrificare il diritto di difesa dell'imputato, diritto che dovrebbe normalmente trovare una tutela quanto più ampia possibile. L'avversione dei commentatori è pienamente comprensibile, dal momento che il predetto sacrificio viene giustificato richiamando un principio­ quale quello del libero convincimento del giudice che, sebbene di stampo garantista, viene usato in questo caso contro l'imputato.

Tuttavia, la predetta soluzione sembra l'unica concretamente prospettabile, trovando il proprio fondamento nell'ormai noto schema del bilanciamento fra diritti. Infatti, non a caso, al sacrificio del diritto di difesa si accompagna un maggiore rigore nella valutazione della attendibilità del dichiarato del chiamante de relato[11]. Precisazione che trova la sua ratio nella necessità di compensare il deficit di tutela dei diritti dell'imputato. Perciò, per quanto possa far storcere il naso il fatto che il diritto di difesa dell'imputato possa subire una sensibile compressione, non si può però dimenticare che i diritti non costituiscono monadi isolate, ma vivono delle reciproche connessioni fra loro.

Dott. Marco Misiti


[1] Si badi bene: anche in questi casi il giudice penale dovrà vagliare l'attendibilità del testimone. Tuttavia, è una valutazione che si ferma al piano della credibilità del testimone e alla attendibilità del dichiarato, non essendo necessario individuare riscontri al narrato al fine della utilizzabilità probatoria.

[2] Si veda sul punto P. Tonini, Manuale di procedura penale, 2020, 314. Vedi anche A. Centonze, Le fonti dichiarative anomale: tipicità, atipicità probatoria e overrulings giurisprudenziali, in Cassazione penale, n. 1/2021, 17 ss.

[3] La giurisprudenza di legittimità ha precisato che i riscontri estrinseci non devono necessariamente sostanziarsi in prove autosufficienti, ossia in grado di per sé di dimostrare la responsabilità dell'imputato. Altrimenti argomentando, la chiamata in reità o correità non sarebbe più necessaria per fondare il giudizio di colpevolezza. Sul punto, si veda Cass. pen., Sez. 4, sentenza 16 febbraio 2005, n. 5821.

[4] Come precisato nel contributo, da un lato, l'escussione del dichiarante si caratterizza per una serie di formalità ulteriori; dall'altro lato, al giudice è richiesto uno sforzo motivazionale maggiore circa la valutazione dell'attendibilità del dichiarante.

[5] Come precisato in Cass. pen. Sez. U, sentenza 14 maggio 2013, n. 20804, il fenomeno della chiamata in reità o correità de relato è tipico dei reati concernenti la criminalità organizzata. La stessa sentenza ha avuto modo di precisare che, nella maggior parte dei casi concernenti i reati fine delle associazioni, la chiamata de relato si traduce in una chiamata in reità, in quanto il chiamante ha avuto conoscenza "per sentito dire" all'interno della predetta associazione. Tuttavia, può anche accadere che la chiamata de relato assuma le forme di una chiamata in correità. Ciò accade, per esempio, quando uno degli esecutori materiali del reato viene a sapere da altro esecutore l'identità del mandante del reato.

[6] Sebbene manchi nel codice di rito una disposizione che, analogamente a quanto avviene per la testimonianza indiretta, contenga la disciplina integrale di questa ipotesi, tuttavia non mancano riferimenti normativi espressi. Come ha avuto modo di precisare Cass. pen., Sez. U, sentenza 14 maggio 2013, n. 20804, l'art. 210, comma 5, c.p.p., afferma che l'art 195 c.p.p. trova applicazione anche in relazione all'esame di persona imputata in un procedimento connesso. Inoltre, in relazione all'istituto di cui all'art. 197-bis c.p.p., il fatto che il testimone assistito è ­ a differenza dell'imputato in procedimento connesso ­ un testimone a tutti gli effetti seppur con alcune peculiarità, implica un rinvio implicito anche alla disciplina della testimonianza indiretta. Si noti, tra l'altro, che la chiamata de relato può essere effettuata anche dal coimputato, ossia un imputato nel medesimo procedimento, e non in un procedimento diverso e ulteriore, seppur connesso.

[7] Si vedano sul punto Cass. pen., Sez. 6, sentenza 13 gennaio 2009, n. 1085 e Sez. 1, sentenza 12 marzo 2020, n. 9891.

[8] Così si esprime Cass. pen., Sez. U, sentenza 14 maggio 2013, n. 20804.

[9] In tal senso si esprime sempre Cass. pen., Sez. U, sentenza 14 maggio 2013, n. 20804. Il giudice di legittimità ritiene equiparabili sotto questo versante sia il caso in cui la persona venga esaminata ai sensi dell'art. 210 c.p.p., sia il caso in cui la persona venga escussa quale testimone assistito ai sensi dell'art. 197-bis c.p.p.

[10] Si veda G. Barroccu, Chiamata in correità de relato: il libero convincimento del giudice come "cavallo di Troia" per il recupero del sapere investigativo, in Dir. pen. proc., n. 12/2013, 1437 ss. L'Autore, in particolare, critica l'interpretazione del libero convincimento del giudice elaborato dalle predette Sezioni unite, le quali sembrano utilizzare tale principio garantistico ­ rimanendo nella metafora utilizzata dall'Autore ­ come "Cavallo di Troia" per espugnare le mura della roccaforte del sistema accusatorio. A commento di Cass. pen. Sez. 6, sentenza 10 ottobre 2018, n. 45733, si veda C. Fontani, Chiamata in correità o in reità: le regole probatorie di valutazione fissate dalla Cassazione, in Dir. pen. proc., 2/2020, 237 ss. Secondo l'Autrice, la soluzione più congeniale alle prerogative connesse al diritto di difesa sarebbe quella della inutilizzabilità delle dichiarazioni de relato ogniqualvolta l'imputato in un procedimento connesso scelga la via del silenzio totale.

[11] Sul punto, si rinvia a quanto deciso in Cass. pen., Sez. 1, sentenza del 8 ottobre 2019 n. 41238, la quale a sua volta richiama la predetta sentenza delle Sezioni unite.