Il principio di offensività nei reati di pericolo concreto e astratto
Tra i vari principi cardine del diritto penale è ormai pacifico che debba annoverarsi anche il principio di offensività. Esso trova fondamento non solo nella normativa di rango primario, in particolare nell'art. 49 c.p., ma anche nella Carta costituzionale.
In particolare, un primo fondamento normativo può essere rinvenuto nell'art. 13 Cost.: se è vero che il diritto penale – e di conseguenza la privazione della libertà personale – debbano costituire una extrema ratio, altrettanto innegabile è che ciò possa avvenire solo se vi sia stata una lesione o messa in pericolo di un bene giuridico.
Un secondo addentellato può essere individuato nell'art. 25, comma 2, Cost., nella parte in cui connette la punizione penale alla realizzazione di un fatto. Solo quest'ultimo, infatti, può essere offensivo, non anche la mera intenzione di commettere un reato o la sola personalità di un individuo.
La rilevanza costituzionale del principio di offensività consente allo stesso di acquisire una molteplice funzione: criterio ermeneutico, nel momento in cui si deve individuare il significato di una disposizione; criterio per il legislatore di selezione delle condotte penalmente rilevanti – e, quindi, dei relativi beni giuridici da tutelare – da inserire nella descrizione della norma incriminatrice (offensività in astratto); criterio per il giudice di individuazione dei comportamenti che rientrino nella portata della norma incriminatrice in quanto concretamente offensivi (offensività in concreto)[1].
È evidente come il concetto di offesa possa avere le più varie declinazioni: non solo concreta lesione del bene giuridico tutelato (reati di danno), ma anche messa in pericolo (reati di pericolo); tutela del bene finale mediante l'incriminazione della lesione di un interesse strumentale (si pensi, a titolo esemplificativo, alla punizione della violazione di obblighi di comunicazione, in ultima battuta finalizzati a garantire la concorrenza nel mercato e la circolazione delle informazioni).
Se i reati di danno non pongono particolari problemi sul versante del principio di offensività, altrettanto non si può affermare per quanto concerne i reati di pericolo. Infatti, a seconda di come viene descritta la fattispecie incriminatrice, sorgono più o meno dubbi sulla compatibilità di tale tipologia di fattispecie penale con il principio ora in esame.
Esistono, infatti, due categorie di reati di pericolo: da un lato, quelli che lo descrivono in termini concreti, richiedendo perciò che si accerti nel singolo procedimento che il bene giuridico tutelato abbia corso un effettivo rischio di una sua lesione; dall'altro lato, quelli che non richiedono una concreta verifica della messa in pericolo del bene giuridico, in quanto tale situazione, secondo un giudizio basato sull'id quod plerumque accidit, è insita nella stessa condotta.
Esempio paradigmatico della differenza tra le due categorie attiene al reato di incendio, di cui all'art. 423 c.p.: nel caso in cui si incendi una cosa propria, di cui al comma 1, è necessario accertare che da tale condotta sia derivato un pericolo per la pubblica incolumità; al contrario, nella ipotesi di incendio di cosa altrui, l'accertamento del pericolo non è necessario poiché, secondo l'id quod plerumque accidit, appiccare il fuoco a un bene di terzi è di per sé pericoloso.
Se nella ipotesi di reati di pericolo concreto è pacifica la loro conformità al principio di necessaria offensività, maggiori sono i dubbi in relazione al reato di pericolo astratto. Le ricostruzioni adottate sul punto sono le più varie.
C'è chi sostiene la necessità, al fine di ritenere tali reati conformi a Costituzione, di accertare l'esistenza in concreto di una messa in pericolo del bene giuridico. È stato però osservato che, così facendo, verrebbe di fatto eliminata una categoria di reato che trova la propria ragion d'essere nella difficoltà di accertare nel procedimento la effettiva lesione di alcuni beni giuridici.
Altri ancora hanno fatto riferimento all'art. 49, comma 2, c.p., nella parte in cui consente all'imputato di andare esente da punizione qualora provi che l'evento sia impossibile per l'inidoneità dell'azione o l'inesistenza dell'oggetto.
La giurisprudenza della Corte costituzionale si è spesso pronunciata sul punto affermando che al giudice è impedito di dichiarare la responsabilità penale dell'imputato per un reato di pericolo astratto qualora emerga l'inesistenza di una possibile situazione di pericolo per il bene giuridico tutelato.
Sul punto è utile richiamare una recentissima sentenza della Corte costituzionale che, pronunciandosi in tema di porto di armi improprie di cui all'art. 4, comma 2, legge n. 110 del 1975, ha fatto il punto sulla compatibilità dei reati di pericolo astratto e il principio di offensività[2]. Infatti, il giudice delle leggi ha fatto salva tale tipologia di illecito penale con alcune precisazioni.
Riguardo l'offensività in astratto, la sentenza ha affermato che tale principio non comporta che l'unico modello di incriminazione corrisponda al reato di danno. Al legislatore è perciò consentito di sanzionare anche la sola esposizione a pericolo del bene giuridico, finanche presumendo dal fatto l'esistenza di tale situazione, purché ciò corrisponda non a una scelta arbitraria e irrazionale, ma all'id quod plerumque accidit.
Per quanto concerne il piano della offensività in concreto, la Corte costituzionale ha precisato che tale principio trova applicazione anche nei reati di pericolo presunto. La differenza sostanziale con i reati di pericolo concreto è la seguente: mentre in questi ultimi il giudice deve appurare la sussistenza di una seria probabilità di verificazione del danno, nei reati di pericolo astratto il giudice deve escludere la punibilità quando difetti ogni ragionevole possibilità di produzione del danno.
Alla luce di tali considerazioni, è possibile affermare che il rispetto del principio di offensività è assicurato anche nel caso dei reati di pericolo, la cui distinzione tra pericolo astratto e concreto mantiene la propria rilevanza ancora oggi.
[1] Sul punto si rinvia a M. Catenacci, Note introduttive allo studio delle fattispecie penali, Giappichelli, 2019, pagg. .
[2] La sentenza è la n. 139 del 10 luglio 2023. In particolare, l'art. 4, comma 2, l. 110 del 1975 prevede due diverse ipotesi di reato di porto di armi improprie: da un lato, il porto di armi nominate, cosiddette perché richiamate espressamente nel primo periodo della citata disposizione; dall'altro lato, il porto di armi innominate, poiché indicate come «qualsiasi altro strumento non considerato espressamente come arma da punta o da taglio». La differenza sostanziale tra le due ipotesi è la seguente: mentre nel porto di armi improprie nominato la punibilità è esclusa qualora sussista un giustificato motivo – si potrebbe avere a disposizione una catena poiché si deve portarla all'amico in motorino che se l'è dimenticata a casa –, nel caso di porto di armi improprie innominate si è esenti da responsabilità anche quando le circostanze di tempo e di luogo non consentono di ritenere che lo strumento sia utilizzabile per l'offesa alla persona.