
Il potere giudiziario di integrare il contratto secondo buona fede
A cura di Dott. Gennaro Ferraioli
L'integrazione del contratto è un istituto disciplinato all'art. 1374 c.c., il quale vincola le parti non solo a quanto in esso espresso, ma anche a tutte le conseguenze che originano ex lege o, in mancanza, secondo gli usi e l'equità.
La dottrina maggioritaria interpreta la norma come tassativa, di modo che l'elenco sia da intendersi chiuso e non si ammetta la forza integrativa di altra fonte non espressamente prevista.
Per tale considerazione, non si potrebbe riconoscere efficacia integrativa alla clausola generale di buona fede, la quale rimarrebbe confinata alla fase esecutiva del contratto.
In senso contrario, vi è chi nota come la buona fede sia comunque espressamente prevista da una specifica disposizione codicistica, in tal modo se ne afferma la compatibilità con l'art. 1374 c.c. con conseguente superamento del problema della tassatività.
In ogni caso, seppur ammessa, tale clausola generale non può ricalcare l'operatività delle singole e puntuali norme integrative, motivo per il quale viene demandato un delicato ruolo al giudice.
La buona fede è una clausola generale dell'ordinamento, richiamata dal codice in un duplice, nonché distinto, ordine di categorie, quella soggettiva e quella oggettiva.
Sul piano strutturale, la buona fede in senso soggettivo fa riferimento a uno stato intellettivo, il quale deve essere verificato dall'interprete per verificarne la corrispondenza rispetto alla condizione psicologica prevista dalla legge.
Nella propria accezione oggettiva, invece, la buona fede richiama le regole da seguire in materia di adempimento delle obbligazioni, nelle trattative e nell'esecuzione del contratto ex artt. 1175, 1337 e 1375 c.c.
In sede negoziale, è definita come l'atteggiamento di cooperazione e di solidarietà che impone a ciascuna delle parti, oltre i doveri specifici di cui al contratto e alla legge, quei comportamenti tesi a salvaguardare gli interessi dell'altra.
In proposito, si è affermato che la buona fede oggettiva è principio attuativo dei doveri di solidarietà sociale di cui all'art. 2 Cost.
Data la generalità della clausola, compete al giudice il compito di riempirla di significato in relazione al caso concreto in cui viene in rilievo.
La principale problematica che ruota attorno tale attribuzione è proprio quella attinente ai limiti entro cui tale potere possa essere esercitato.
Si evidenzia come l'art. 1375 c.c., sebbene sia riferito espressamente alla fase esecutiva, non possa, per ciò solo, non ritenersi compatibile con una efficacia integrativa: precisa la stessa giurisprudenza di legittimità come essa si atteggi a regola obiettiva che incide sul riequilibrio delle posizioni contrattuali.
Le applicazioni in senso integrativo della clausola costituiscono una formula naturalmente aperta, in quanto lo stesso principio di buona fede è norma generale, di chiusura del sistema.
Nel dettaglio, è pacifico in ambito giurisprudenziale che il principio di buona fede è sia etico, che giuridico, si riferisce non solo all'esercizio dei propri diritti (di pari passo con la nozione di abuso), ma anche all'adempimento dei propri doveri.
Il riferimento al rapporto tra i doveri obbligatori consente di precisare come, in tema, la questione centrale sia la c.d. giustizia contrattuale. L'intervento del giudice, infatti, non può mai risolversi in una ingerenza nella volontà dei contraenti, neppure in senso di riequilibrio della convenienza economica.
In conclusione, la giurisprudenza di legittimità sembra, ad oggi, improntata verso un orientamento mediano, il quale tenta di dare ingresso alla clausola di buona fede attraverso il suo naturale intreccio con il principio di equità, espressamente previsto dall'art. 1374 c.c. tale impostazione permette un formale rispetto della norma e, allo stesso tempo, un'adeguata disciplina della giustizia al caso concreto.
Per tale orientamento, l'utilizzo congiunto dei due istituti assolve la funzione di intervento sul contenuto contrattuale in chiave integrativa allo scopo di riequilibrarne il programma.
L'intervento dell'autorità giudiziaria, tuttavia, non può mai concretizzarsi in una violazione della volontà dei contraenti: sebbene si possa percepire come il contenuto eteronomo negoziale stia acquisendo un crescente rilievo, il potere del giudice non può risolversi in una eccessiva invasività, non potendo ammettersi in alcun modo lo snaturamento della essenza del contratto.