L’ abuso d’ufficio: la storia travagliata della sua fisionomia

02.08.2023

Le diverse posizioni assunte recentemente in relazione al reato di abuso di ufficio (art. 323 c.p.) dimostrano la persistente natura problematica di tale illecito penale, nonostante le continue riforme che l'hanno interessato nel corso del tempo. 

Infatti, sebbene la descrizione della citata fattispecie abbia più volte cambiato aspetto, tuttavia essa non sembra aver trovato ancora una propria forma definitiva.

La versione originaria del Codice Rocco così prevedeva: "Il pubblico ufficiale, che, abusando dei poteri inerenti alle sue funzioni, commette, per recare ad altri un danno o per procurargli un vantaggio, qualsiasi fatto non preveduto come reato da una particolare disposizione di legge, è punito con la reclusione fino a due anni o con la multa da lire cinquecento a diecimila".

La natura residuale del reato era resa ben evidente dalla rubrica dell'articolo: "Abuso di ufficio in casi non preveduti specificamente dalla legge". 

Nella visione del legislatore dell'epoca, tale fattispecie doveva fungere da contenitore di tutte le ipotesi di reati non sussumibili in specifiche fattispecie, ma che comunque erano ritenuti meritevoli di pena in quanto consistenti in comportamenti di tipo abusivo.

A tale descrizione di tipo generico si accompagnava la necessaria presenza di un dolo specifico, ossia quello di recare ad altri un danno o procurargli un vantaggio. Tale elemento costitutivo, sebbene fungesse da selettore di condotte penalmente rilevanti, al tempo stesso configurava una forma di anticipazione della soglia di punibilità, non richiedendo ai fini della integrazione del reato che il vantaggio o il danno si fossero verificati in concreto.

Le caratteristiche finora evidenziate non sono state intaccate dalla prima riforma del reato in esame, avvenuta con la legge n. 86 del 1990. La formulazione risultava la seguente: "1. Il pubblico ufficiale o l'incaricato di un pubblico servizio, che, al fine di procurare a sé o ad altri un ingiusto vantaggio non patrimoniale o per arrecare ad altri un danno ingiusto, abusa del suo ufficio, è punito, se il fatto non costituisce più grave reato, con la reclusione fino a due anni. 2. Se il fatto è commesso per procurare a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale, la pena è della reclusione da due a cinque anni".

Il legislatore del 1990 si era perciò limitato a prevedere che il vantaggio perseguito potesse essere anche quello dello stesso pubblico ufficiale; che tanto il vantaggio quanto il danno presentassero il requisito dell'ingiustizia; che, nel caso in cui il vantaggio perseguito avesse natura patrimoniale, si applicasse una diversa cornice edittale; che il reato potesse essere commesso anche dall'incaricato di pubblico servizio. Immutati erano rimasti, invece, sia il dolo specifico, sia la generica descrizione della condotta come abuso di potere.

La riforma era dettata per lo più da una coerenza di sistema con l'avvenuta abrogazione dei reati di peculato con distrazione e di interesse privato in atti di ufficio[1].

L'ampliamento delle ipotesi di applicazione dell'art. 323 c.p. resero evidente che la formula descrittiva fosse particolarmente generica, tanto da indurre il legislatore a intervenire nuovamente sul punto con la legge n. 234 del 1997. In particolare, l'art. 323 c.p. così recitava: "1. Salvo che il fatto non costituisca un più grave reato, il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di norme di legge o di regolamento, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni. 2. La pena è aumentata nei casi in cui il vantaggio o il danno hanno un carattere di rilevante gravità".

La novella normativa si poneva come obiettivo quello di effettuare una maggiore perimetrazione delle condotte penalmente rilevanti, in ossequio ai principi di determinatezza e tassatività. Fu pertanto introdotto il requisito della violazione di norme di legge o di regolamento. L'oggetto del dolo specifico venne reso nella nuova formulazione l'evento del reato, così come sul versante dell'elemento soggettivo la condotta doveva essere sorretta da dolo intenzionale. Inoltre, si stabilì espressamente che l'abuso del potere dovesse essere realizzato nello svolgimento delle funzioni o del servizio. Alla fattispecie tradizionale di abuso, come avviene anche nella formulazione attuale, venne affiancata quella di omessa astensione per ipotesi di conflitto di interesse. Infine, la qualificazione del vantaggio come patrimoniale non rilevava più ai soli fini dell'aggravante, ma fu resa elemento costitutivo del reato.

Alla volontà legislativa, volta a ridurre l'area del penalmente rilevante ai sensi dell'art. 323 c.p., è invece seguito un approccio giurisprudenziale caratterizzato da interpretazioni maggiormente estensive. Si è perciò affermato che, in relazione al concetto di legge, dovessero essere ricomprese tra queste anche le norme costituzionali, finanche di principio. Di conseguenza, si affermò che anche la violazione di principi, quali quello di imparzialità e buon andamento, possano giustificare una condanna per abuso di ufficio. Si statuì anche che l'eccesso di potere configuri anch'essa una violazione di legge[2].

Gli scarsi risultati ottenuti con la riforma del 1997 sul versante della restrizione dell'area del penalmente rilevante hanno indotto il legislatore a intervenire nuovamente sul punto[3]. Infatti, con il d.l. n. 76 del 2020, la formulazione è stata resa la seguente: "1. Salvo che il fatto non costituisca un più grave reato, il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto è punito con la reclusione da uno a quattro anni. 2. La pena è aumentata nei casi in cui il vantaggio o il danno hanno un carattere di rilevante gravità".

Sul punto assume peculiare rilevanza la specificazione delle norme violate: non una qualsiasi, finanche di principio, ma solo quelle che contengano specifiche regole di condotta, previste in legge o atti aventi forza di legge. Restano esclusi perciò gli atti di secondo grado, anche normativi. Si precisa, inoltre, la necessità che l'attività violativa debba essere priva di margini di discrezionalità.

L'obiettivo perseguito dal legislatore del 2020 è stato, ancora una volta, quello di prevenire forme di invasione da parte del giudice penale nell'attività amministrativa e di scongiurare il rischio di forme di burocrazia difensiva.

Che la riforma normativa sia riuscita a conseguire gli effetti sperati è oggi messo in discussione. Infatti, le ultime iniziative legislative mirano ad abrogare in toto l'art. 323 c.p. poiché ritengono eccessivo il numero di procedimenti avviati per abuso di ufficio, se paragonato a quello di sentenze effettivamente contenenti statuizioni di condanna.

Allo stato attuale si può solo affermare che il reato di abuso di ufficio abbia subito nel tempo una profonda trasformazione: da illecito volto a punire qualsiasi forma di abuso di potere non diversamente qualificato, ad illecito penale che presenta una più compiuta descrizione, ritenuta da alcuni ancora eccessivamente ampia.

Dott. Marco Misiti


[1] Sul punto si rinvia a M. Catenacci, Abuso d'ufficio (art. 323 c.p.), in Reati contro la pubblica amministrazione, (a cura di) M. Catenacci, Giappichelli Editore, 2022, 167 ss.

[2] Si veda sul punto A. Manna, G. Salcuni, Dalla "burocrazia difensiva" alla "difesa della burocrazia"? Gli itinerari incontrollati della riforma dell'abuso d'ufficio, in La legislazione penale, 17 dicembre 2020, secondo i quali Autori l'eccesso di potere «dopo una prima eclissi nella giurisprudenza immediatamente successiva alla novella del 1997, riapparve e ben presto prevalse nel diritto vivente sulla scia di alcune sollecitazioni dottrinali, le quali avevano evidenziato come esercitare un pubblico potere in maniera distorta rispetto al fine per cui il predetto potere è stato conferito ad un pubblico funzionario significhi violare la ratio del precetto attributivo».

[3] Nel testo non viene riportata la modifica ulteriore intervenuta nel 2012 con la legge n. 190, cosiddetta "Spazzacorrotti", con la quale è stata elevata la cornice edittale da uno a quattro anni di reclusione.