La “prisonizzazione”: l’impatto del carcere sulla vita del reo

02.05.2023

"Sbattere un uomo in carcere, lasciarlo solo, in preda alla paura e alla disperazione, interrogarlo solamente quando la sua memoria è smarrita per l'agitazione, non è forse come attirare un viaggiatore in una caverna di ladri e assassinarlo?" 

Queste parole di Voltaire calzano a pennello per descrivere cosa comporti per un individuo la privazione della libertà, l'attesa di un giudizio definitivo, la perdita degli affetti, la perdita di autonomia e la spersonalizzazione. 

Entrare in carcere rappresenta un vero e proprio trauma, che genera sofferenza e malattia in spazi di vita ristretti.

Nonostante in seguito all'entrata in vigore dell'articolo 27 comma 3 della Costituzione si sia riconosciuta la funzione rieducativa della pena, non più legata alle ancestrali idee di vendetta e retribuzione, il carcere resta una realtà complessa per le sue problematiche e contraddizioni. 

Un ambiente in cui cambiano radicalmente i legami e in cui sono imposte nuove regole contribuisce all'insorgere di una serie di patologie, che costituiscono l'effetto collaterale della privazione della libertà personale e di ciò che ne consegue. 

Queste patologie sono definite psicosi carcerarie e, pertanto, sono "forme morbose caratterizzate dalla specificità del legame tra disturbo e stato di detenzione, talché si osservano solo in carcere e sono legate alla particolare esperienza esistenziale da esso costituito"[1] Uno dei primi scienziati sociali ad essersi occupato di ricerca in carcere è stato Donald Clemmer, il quale nel 1940 ebbe il merito di aver individuato la cosiddetta "sindrome di prisonizzazione". Il termine, dall'espressione inglese prison, vuole intendere "l'assunzione in grado maggiore o minore del folklore, dei modi di vita, dei costumi e della cultura generale del penitenziario"[2]. 

La "prisonizzazione" consiste, dunque, in una "assimilazione", cioè in una progressiva integrazione alla cultura carceraria, che comporta la modificazione della personalità del soggetto sottoposto al regime carcerario, per cui progressivamente si determina la perdita dei valori e delle capacità che il soggetto possedeva nella propria vita in libertà; l'estraniamento e l'isolamento, non solo dal mondo esterno ma anche all'interno delle stesse mura del carcere; la perdita di individualità, da cui deriva l'accettazione di un ruolo inferiore, l'acquisizione di nuovi modi di vestire, parlare e mangiare.

Clemmer, in particolare, sosteneva che "il mondo della prigione è un mondo privo di benevolenza. C'è sporcizia, puzza e sciatteria; ci sono monotonia e stupore. La sua popolazione è frustrata, infelice, smaniosa, rassegnata, amareggiata, astiosa, vendicativa… Se si eccettuano pochi individui, regna lo smarrimento", motivo per cui si genera un adattamento allo stile di vita carcerario, quasi come fosse un effetto dell'istinto di sopravvivenza alle condizioni forzate in cui si è costretto a vivere. 

Certo è che l'incidenza del mondo carcerario sul detenuto, quindi il grado di prisonizzazione, varia in base a fattori individuali. 

Per Clemmer alcuni dati che incidono positivamente sul rischio di insorgenza di tale disturbo sono: la giovane età; una condanna breve, quindi un'esposizione breve ai rischi insiti che comporta la vita in carcere; una personalità abbastanza stabile grazie alle relazioni positive durante la vita pre-carceraria; il perdurare di contatti positivi con persone all'esterno del carcere; il rifiuto o l'incapacità di integrarsi in un gruppo carcerario, pur tentando di non incorrere nell'auto-isolamento; il rifiuto di accettare le regole del sistema imposte dalla stessa popolazione carceraria; a contrario, l'atteggiamento solidale e collaborativo verso la polizia penitenziaria e, in generale, le istituzioni, così da identificarsi con la comunità dei "liberi"; il pernottamento con un compagno di cella e compagni di lavoro che non hanno le qualità del leader e che non siano neppure loro completamente integrati nella cultura carceraria; l'astensione da comportamenti sessuali anormali, un disinteresse per il gioco d'azzardo, insieme ad una ferma volontà ad impegnarsi seriamente nelle attività rieducative e formative, quindi lavoro e attività ricreative. Il processo di prisonizzazione è un continuum, un processo graduale in cui la maggiore o minore simbiosi tra il singolo e la realtà carceraria, intesa in toto, può subire varie pressioni, anche in base a fattori universali, che, dunque, nulla hanno a che fare con l'excursus del singolo individuo. Secondo Clemmer, la esclusiva influenza, per un certo periodo di tempo, dei fattori universali è sufficiente affinché avvenga l'integrazione di un individuo alla cultura carceraria, a discapito del reinserimento sociale futuro.

La sindrome di prisonizzazione può manifestarsi in vari modi, fra cui il suicidio, che è l'ipotesi estrema a cui arrivano quei soggetti della popolazione carceraria sopraffatti dalla perdita di speranza per il futuro e dall'impossibilità di gestire il presente, soprattutto negli istituti penitenziari in cui, per ostacoli spesso anche strutturali, non è possibile rendere l'esperienza carceraria proficua in vista di un reinserimento nella società durante e post pena.

Oltre agli istinti suicidi, la prisonizzazione si può tradurre nella cosiddetta "sindrome persecutoria", caratterizzata da un atteggiamento sospettoso e diffidente, una forma di reattività all'ambiente carcerario con tendenze paranoiche[3], in cui, nello stato di regressione, il detenuto perde la propria autonomia e sviluppa un approccio ansiogeno nei confronti di qualsiasi novità, chiudendosi in se stesso, fino ad acuirsi in forme di infantilizzazione, in cui la propria identità subisce una profonda disgregazione[4].

Altro aspetto che può assumere la prisonizzazione è la "sindrome del guerriero", a cui è predisposto il detenuto particolarmente violento, in particolare tra i 30 e i 50 anni di età, condannato a lunghe pene, che "ha sostituito la speranza di uscire con un'affermazione narcisistica di sé, attraverso il controllo violento sugli altri"[5]. Secondo una lombrosiana connotizzazione[6], il soggetto affetto da questo tipo di prisonizzazione presenta tatuaggi sul viso ed un allungamento della linea palpebrale per conferire allo sguardo un aspetto più aggressivo[7]. La "sindrome del guerriero" comporta una tendenza del soggetto patologico allo scontro fisico per qualsiasi motivo o provocazione, anche presunta, con gli altri membri della popolazione carceraria, istituzioni comprese, per evidenziare la sua superiorità dinanzi alle sopraffazioni in ambito carcerario.

Infine, tra i disturbi legati al carcere vi è la sindrome di Ganser, cioè uno stato patologico che si manifesta soprattutto nei detenuti in attesa di giudizio, caratterizzato da allucinazioni visive ed uditive, atteggiamenti inusuali, paranoici, isterici e nevrotici che potrebbero portare al cosiddetto atteggiamento di infermità mentale, oltre che ad uno stato di disorientamento, coscienza crepuscolare e risposte di traverso, atteggiamento noto come Vorbeireden[8].

Queste vere e proprie patologie di insorgenza carceraria pongono l'attenzione su un tema caldo e spinoso, cioè il rispetto del diritto alla salute, diritto inalienabile di tutti gli individui, che siano dentro o all'esterno le sbarre, ma che spesso, nella realtà dei fatti, è fortemente sacrificato, come, da ultimo, l'emergenza da Covid-19 ha reso palese, oltre che le varie condanne che ha inflitto la Corte EDU all'Italia (tra tutte si ricordi la nota sentenza Torregiani) per le condizioni disumane e degradanti in cui versano i nostri detenuti, a causa dello scarso spazio disponibile e le precarie condizioni igieniche dei reclusi negli istituti penitenziari italiani.

Su sollecitazione di figure come il Garante dei diritti dei detenuti, istituito nel 2013, si sta tentando di diffondere più consapevolezza sulla tematica e agire per denunciare queste situazioni prima che sia troppo tardi, ma la strada da percorrere affinché il dovere del reo di scontare la pena non collida con le garanzie sancite dalla Costituzione è ancora lunga e tortuosa, piena di ostacoli di natura strutturale per la mancanza di strutture carcerarie e personale adeguati.

Dott.ssa Gemma Colarieti

Bibliografia

  • Vita carceraria e processi di "Prisonizzazione", in State of mind. Il Giornale delle Scienze Psicologiche, 2013.
  • Porchetti R., Il carcere: tra rischio di prisonizzazione e prospettive di recupero sociale, in Profiling. I profili dell'abuso, Anno 7 n. 3, settembre 2016.


[1] Ponti G., & Merzagora B., (2008) Compendio di criminologia, V ed., Cortina Raffaello ed, Milano, p. 404.

[2] Pajardi D., (2008), Oltre a sorvegliare e a punire. Esperienze e riflessioni di operatori su trattamento e cura in carcere, Giuffrè, Milano, p. 277.

[3] Carnevale A., & Di Tillio A., (2006), Medicina e carcere. Gli aspetti giuridici, criminologici,

sanitari e medico legali della pena, Giuffrè, Milano.

[4] Monzani M., (2011), Percorsi di criminologia, Libreria Universitaria ed, Padova.

[5] Monzani M., (2011), Percorsi di criminologia, Libreria Universitaria ed, Padova, p. 304.

[6] Cesare Lombroso, Verona, 1835 -Torino, 1909), considerato il padre della criminologia moderna e della antropologia criminale, oltre che esponente del positivismo. Il suo lavoro è stato fortemente influenzato dalla fisiognomica, dal darwinismo sociale e dalla frenologia. Le teorie lombrosiane si basano sul concetto del "criminale per nascita", secondo cui l'origine del comportamento criminale sarebbe insita nelle caratteristiche anatomiche del criminale, persona fisicamente differente dall'uomo normale, con anomalie ed atavismi che ne determinavano il comportamento socialmente deviante. Di conseguenza, secondo Lombroso, l'inclinazione al crimine è una patologia ereditaria da curare con un approccio clinico-terapeutico. Solo nell'ultima parte della sua vita Lombroso prese in considerazione anche i fattori ambientali, educativi e sociali come concorrenti a quelli fisici nella determinazione del comportamento criminale. (fonte: Wikipedia)

[7] Monzani M., (2011), Percorsi di criminologia, Libreria Universitaria ed, Padova.

[8] Ragozzino D., (1975), Le sindromi carcerarie, in Lineamenti di Antropologia criminale, Napoli.