La responsabilità amministrativa da reato

12.05.2023

«Sarebbe un finto processo se il pubblico ministero perseguisse fantasmi intellettuali, diavoli ovvero santi, cose inanimate, bestie, persone giuridiche, enti collettivi, cadaveri. Bisogna che l'imputazione evochi una persona fisica, esista o no in carne ed ossa. Stiamo parlando dei presupposti mancando i quali il processo sarebbe pura apparenza[1]».

Questo assunto riflette un principio consolidato nella teoria del diritto penale e trae le proprie radici dal diktat "societas delinquere non potest".

Per tale ragione l'entrata in vigore del d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231 "Disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica, a norma dell'articolo 11 della legge 29 settembre 2000, n. 300" ha rappresentato una rivoluzione nel panorama normativo italiano. Infatti in seguito alla tendenza registrata in altri ordinamenti europei il legislatore italiano si è determinato all'implementazione di un modello di responsabilità che postula una "colpevolezza di organizzazione".

Il punto di svolta segnato dal d.lgs. 231/2001 riguarda il fatto che i soggetti di cui alla rubrica del decreto (le persone giuridiche, le società e le associazioni anche prive di personalità giuridica) diventano protagonisti della vicenda punitiva e destinatari di sanzioni a contenuto afflittivo, per il fatto di non avere adottato modelli di organizzazione idonei a prevenire efficacemente la commissione di alcuni reati (reati-presupposto).

Nell'apparato delineato dal legislatore la responsabilità amministrativa da reato si delinea come diretta, autonoma ed eventualmente concorrente con quella dell'autore del reato: diretta in quanto non è subordinata a condizione sospensiva né si pone in via alternativa rispetto a quella della persona fisica, autonoma in quanto prescinde dall'accertamento della responsabilità della persona fisica che ha commesso il reato-presupposto.

All'articolo 5 il decreto disegna i criteri (oggettivi e soggettivi) per cui si può ascrivere la responsabilità all'ente: «1. L'ente è responsabile per i reati commessi nel suo interesse o a suo vantaggio: a) da persone che rivestono funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell'ente o di una sua unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale nonché da persone che esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo dello stesso; b) da persone sottoposte alla direzione o alla vigilanza di uno dei soggetti di cui alla lettera a). 2. L'ente non risponde se le persone indicate nel comma 1 hanno agito nell'interesse esclusivo proprio o di terzi».

La questione dirimente sul tema oggetto di analisi, a distanza di più di venti anni dall'adozione del decreto, è quella sulla natura giuridica della Responsabilità degli Enti. Il tema è di rilevanza centrale per via delle implicazioni che ricadono sul piano pratico; prima fra tutte l'applicabilità o meno delle garanzie penali sull'imputazione criminale al complesso sistema societario.

Infatti, a voler qualificare come penale tale responsabilità, nell'applicazione pratica ci si dovrebbe riferire ai dogmi di rango costituzionale: gli articoli 25, 27, 111, 112 e, conseguentemente, la legittimità dell'intero impianto delineato dal decreto 231/2001 sarebbe soggetto al vaglio della Corte Costituzionale.

Vi è un maggioritario filone di pensiero che sostiene la natura sostanzialmente penale della responsabilità degli Enti, a dispetto del nomen iuris: infatti l'origine dell'illecito asseritamente amministrativo è rappresentato dalla fattispecie di reato, purché rientri nell'elenco di cui alla Sezione III del decreto (articoli 24-25 duodevicies) e l'applicazione di risposte sanzionatorie deriva dalla verificazione di esso. Inoltre «a decidere della qualificazione giuridica di un comportamento illecito sta la natura dell'interesse violato, non la natura del soggetto che ha commesso la violazione[2]».

Tuttavia non manca chi profila la nascita di un tertium genus di responsabilità, in cui si compendiano le istanze dell'efficacia preventiva con quelle della massima garanzia che involgono la concezione personalistica della pena. Tale forma ibrida di responsabilità si colloca a metà strada tra i sostenitori della natura amministrativa della Responsabilità, ispirata specialmente all'etichetta legislativa, al regime della prescrizione[3] ed ai destinatari della disciplina e coloro che propendono per la natura penale della stessa, fortemente rivendicata dal suo presupposto: il reato.

Ad onor del vero la disciplina del "diritto penale dell'impresa" si caratterizza per una forte propensione al mutamento, dettato soprattutto dalle logiche aziendali, dall'articolata rete dei rapporti in cui esse si infittiscono e dalle conseguenze che si presentano in seguito alle vicende modificative degli enti. Pertanto gli orientamenti sulla qualificazione giuridica della Responsabilità e le linee direttrici su cui si verterà la disciplina discenderanno proprio dalla costante opera di adattamento, sia da parte del legislatore che dagli operatori giuridici, dell'intero sistema della Responsabilità amministrativa da reato al contesto normativo e giurisprudenziale in cui vive e si trasforma la realtà aziendale.

Dott.ssa Martina Buzzelli

[1] F. CORDERO, Procedura penale, 6^ediz., Milano, 2001, 232 s.

[2] A. FALZEA, La responsabilità penale delle persone giuridiche, in AA.VV., La responsabilità penale delle persone giuridiche in diritto comunitario, Milano, 1981, 141.

3 "Le sanzioni amministrative si prescrivono nel termine di cinque anni dalla data di consumazione del reato". (Articolo 22, comma 1 del d.lgs. 231/2001).