La riforma dei contratti a termine nel c.d. “decreto Lavoro”
Il Legislatore con il recentissimo "decreto Lavoro" (d.l. 4 maggio 2023, n. 48), è intervenuto nuovamente sulla disciplina del lavoro a tempo determinato; l'art. 24, infatti, ha eliminato le causali introdotte dal "decreto Dignità" (d.l. 12 luglio 2018, n. 87) che di tale riforma avevano costituito uno degli aspetti più controversi.
Il d.l. 87/2018, più precisamente, aveva previsto che il contratto di lavoro subordinato a termine potesse avere una durata superiore ai dodici mesi – fermo restando il limite massimo di ventiquattro mesi – solo al ricorrere di almeno una delle seguenti condizioni:
- esigenze temporanee e oggettive, estranee all'ordinaria attività, ovvero esigenze di sostituzione di altri lavoratori;
- esigenze connesse a incrementi temporanei, significativi e non programmabili, dell'attività ordinaria.
Il d.l. 25 maggio 2021, n. 73, poi, aveva aggiunto una terza possibile causale, riferita alle specifiche esigenze che fossero previste dai contratti collettivi nazionali, territoriali o aziendali stipulati dalle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, oppure che fossero previste dai contratti collettivi aziendali stipulati dalle loro rappresentanze sindacali aziendali ovvero dalla rappresentanza sindacale unitaria.
Il decreto del 4 maggio 2023 mantiene fermo il rinvio alle esigenze previste dai contratti collettivi e dispone ora che, in aggiunta a tali ipotesi, il datore di lavoro possa assumere a termine fino a ventiquattro mesi "in sostituzione di altri lavoratori" ovvero – ma solo entro il 30 aprile 2024 – "per esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva individuate dalle parti".
Le causali del "decreto Dignità" erano state talvolta di dubbia interpretazione; appariva ostico, in particolare, individuare con precisione quali incrementi dell'attività ordinaria potessero dirsi "temporanei" e, più ancora, in quali ipotesi essi fossero da considerare "significativi" e "non programmabili".
Era notevolmente restrittiva, inoltre, la previsione che le "esigenze temporanee e oggettive" dovessero essere "estranee all'ordinaria attività" dell'impresa.
Da questo punto di vista, dunque, la riforma del maggio 2023 pare possa essere accolta con favore.
È, inoltre, positivo che, a regime, il canale principale di individuazione delle causali torni a essere la contrattazione collettiva: non soltanto perché l'autonomia sindacale è una sede particolarmente idonea a contemperare la tutela dei lavoratori con la libertà d'impresa, ma anche perché si può auspicare che, in tal modo, si riducano almeno in parte le incertezze – e il contenzioso che ne deriva – dovute alla previsione di causali generali, non specificamente scandite né attagliate al concreto contesto aziendale.
Quello dell'affidamento all'autonomia collettiva costituiva un sistema, del resto, che era stato introdotto dall'ordinamento già quantomeno con la legge n. 56/1987 e che – secondo larga parte degli interpreti che si erano occupati del tema – aveva funzionato efficientemente per diversi anni.
L'ultimo aspetto per cui la riforma di quest'anno può essere valorizzata è che vengono comunque mantenute inalterate le tutele predisposte al fine di evitare abusi nell'utilizzo del lavoro a termine: dalla durata massima alle proroghe, dalla disciplina dei rinnovi al tetto complessivo dei lavoratori che possono essere assunti con contratto a tempo determinato da ciascun datore di lavoro.
Avv. Claudio Serra