Le sorti della cittadinanza italiana in seguito al decreto di “grande naturalizzazione” brasiliano

19.11.2022

Cass. Civ. Sezioni Unite 24 agosto 2022, n. 25317

La disamina posta al vaglio delle Sezioni Unite

La vicenda trae origine dalla richiesta di due cittadini brasiliani circa il riconoscimento della cittadinanza italiana in quanto figli, ed a loro volta nipoti, di cittadini italiani emigrati in Brasile.

A seguito del rigetto della domanda, i due ricorrenti, si vedono negato il riconoscimento della cittadinanza italiana. 

Tuttavia, in qualità di discendenti in linea retta del cittadino italiano Aristide Mentano Antoniazzi, nato in Italia nel 1871 ed emigrato in Brasile alla fine dl 1800, citano dinanzi al Tribunale di Roma il Ministero dell'Interno ed il Ministero degli Affari Esteri chiedendo il riconoscimento iure sanguinis della cittadinanza italiana. La richiesta viene respinta sia in primo grado che in Appello.

La Corte d'Appello di Roma, in particolare, motiva la sua decisione facendo leva sull'art. 11 c.c. del 1865 (codice ora abrogato)[1] e sull'aver perso, gli avi dei due ricorrenti, la cittadinanza italiana in conseguenza del provvedimento c.d. di "grande naturalizzazione" brasiliana del 1889 che, accettato tacitamente dai due italiani, gli avrebbe fatto perdere automaticamente la cittadinanza.

Appurata la particolare importanza in ordine alle questioni di diritto sottese alla controversia, segnatamente all'istituto della perdita della cittadinanza italiana, di soggetti emigrati in Brasile, a seguito della "grande naturalizzazione", la decisione della causa, arrivata alla Corte di Cassazione, viene affidata alle Sezioni Unite.

Motivi della decisione

Con la pronuncia in epigrafe, le Sezioni Unite rigettano il ricorso rilevando l'infondatezza delle doglianze a fondamento della decisione della Corte di Appello di Roma ed accolgono i primi due motivi del ricorso.

La Suprema Corte ricorda come in riferimento alle leggi sulla cittadinanza, "spetta a ciascuno Stato determinare le condizioni che una persona deve soddisfare per essere considerata investita della sua cittadinanza, con il limite puramente negativo, dall'esistenza di un collegamento effettivo tra quello Stato e la persona di cui si tratta. La ragione è che il nesso di cittadinanza non può mai essere fondato su una fictio. Il principio implica che esista un vincolo reale tra lo Stato e l'individuo sulla base di indici idonei a far risaltare la cittadinanza al di là del dato formale." Secondo le Sezioni Unite il vincolo di sangue non può essere considerato una fictio; la cittadinanza, dunque, è una proprietà attribuita dalla legge di uno Stato ai soggetti appartenenti a quella medesima comunità.

Nel caso di specie, lo Stato italiano mantiene per tradizione un approccio conservatore, senza alterazioni sostanziali rispetto al prevalente criterio di acquisizione della cittadinanza iure sanguinis. Per l'ordinamento italiano la cittadinanza è un acquisto a titolo originario per nascita. Di conseguenza, nel sistema delineato dal codice civile del 1865 e dalla successiva legge sulla cittadinanza del 1992 (sistema che ad oggi viene confermato), lo status di cittadino una volta acquistato ha natura permanente, è imprescrittibile ed è "giustiziabile in ogni tempo in base alla semplice prova della fattispecie acquisitiva integrata dalla nascita da cittadini italiani".

La Corte continua precisando che spetta, a chi richiede la cittadinanza, solo di provare il fatto acquisitivo e la linea di trasmissione, mentre alla controparte che nega questa trasmissione, spetta l'onere di provare l'eventuale fattispecie interruttiva. Sulla scia di questa interpretazione, la Corte di Appello di Roma avrebbe dovuto dimostrare l'interruzione della trasmissione iure sanguinis nei confronti dei due ricorrenti.

Tanto premesso, la Corte di Cassazione, nell'affrontare il tema sulla trasmissione della cittadinanza evidenzia come per "poter perdere" il diritto soggettivo in questione si debba configurare un comportamento attivo e specifico e non bastino delle presunzione, come quelle sollevate dalla Corte di Appello di Roma.

In merito al principio concernente l'istituto della perdita della cittadinanza italiana, disciplinato dal codice civile del 1865 e dalla legge del 1912 n. 555, le Sezioni Unite pongono alla luce come la Corte d'Appello di Roma negasse la cittadinanza ai due ricorrenti sulla base dell'avvenuta perdita della stessa da parte di Aristide Mentano Antoniazzi, in forza della fattispecie estintiva disciplinata dall'art. 11 c.c. del 1865.

In questa prospettiva la Corte d'Appello di Roma faceva notare il fatto che l'avo Aristide Mentano Antoniazzi avesse perso la cittadinanza italiana in favore di quella brasiliana per effetto della c.d. "grande naturalizzazione". In conseguenza a tale decreto Antoniazzi avrebbe tacitamente accettato la rinuncia alla cittadinanza italiana, poiché il provvedimento contemplava l'estensione della cittadinanza brasiliana a tutti i soggetti che si fossero trovati nel territorio brasiliano nel 1889 "ad eccezione di coloro che avessero espressamente dichiarato di volervi rinunciare". Ulteriore punto a fondamento del diniego della Corte di Appello di Roma era stabilito nella presunzione che Antoniazzi avesse goduto dei diritti civili e politici in Brasile avendo lo stesso stabilito la propria vita lavorativa ad affettiva e, dunque, accettando tacitamente le conseguenze della naturalizzazione. Aristide, dunque, aveva perduto la cittadinanza italiana ed il figlio Marcellino, nato in Brasile e quindi cittadino brasiliano, non aveva mai ricevuto direttamente la cittadinanza paterna. Il figlio di Aristide avrebbe avuto, come unica possibilità di poter ottenere la cittadinanza italiana, l'onere al compimento della maggiore età di rifiutare espressamente la cittadinanza brasiliana per quella italiana. Non esistono prove di una dichiarazione in tal senso da parte di Marcellino Antoniazzi, di conseguenza la Corte di Appello ha ritenuto che anch'egli avesse rifiutato tacitamente la cittadinanza italiana.

Le Sezioni Unite negano le conclusioni della Corte di Appello osservando come il decreto di c.d. "grande naturalizzazione" considerava cittadini brasiliani i residenti in Brasile dal 15.11.1889 e conferiva loro la possibilità di acquisire la cittadinanza attraverso il compimento di ulteriori atti configurati nella richiesta di iscrizione alle liste elettorali o nel rilascio della tessera elettorale. In difetto, i diritti primari connessi alla cittadinanza sarebbero stati preclusi. Fu successivamente precisato che la concessione della cittadinanza sarebbe stata possibile solo al seguito di mancata dichiarazione dell'interesse di mantenere la cittadinanza di origine o fare apposita domanda da rivolgere al Presidente della Repubblica.

Riassumendo, lo straniero a seguito della grande naturalizzazione poteva diventare cittadino brasiliano essenzialmente dall'iscrizione nelle liste elettorali o dall'assunzione di un impiego pubblico, o ancora da una specifica distinta domanda. Secondo il citato decreto brasiliano a seguito della "grande naturalizzazione" la concessione della cittadinanza non era immediata, ma era necessario compiere ulteriori attività. A sostegno di tale lettura le Sezioni Unite confermano come la presunzione della perdita della cittadinanza italiana dipesa solo dalla circostanza dell'esistenza del decreto di c.d. "grande naturalizzazione" e del fatto che gli avi italiani avessero stabilito la loro vita in Brasile non è sufficiente e perciò non integra il requisito ex art. 11, n. 2 del c.c. del 1865.

Conclusioni

La Corte di Cassazione a Sezioni Unite conclude affermando che la rinuncia della cittadinanza, associata all'accettazione di quella straniera, presuppone la volontarietà dell'atto posto a fondamento. Di conseguenza la cittadinanza mai può dirsi perduta dal cittadino ove a questi sia stata semplicemente impartita una cittadinanza straniera, non a seguito di una sua domanda, ma per concessione spontanea della stato straniero. Gli Ermellini fanno un ulteriore considerazione, ponendo alla luce un dato storico-fattuale: per quanto riguarda i soggetti interessati alla c.d. "grande naturalizzazione" si trattava, per lo più, di emigrati in terra straniera che spesso, per il tempo di cui si parla, erano analfabeti e privi di mezzi idonei a comprendere la situazione e nulla potevano sapere degli effetti di una normativa di tale genere. Di conseguenza, prosegue la Corte, difficilmente l'inerzia di Aristide Mentano Antoniazzi poteva essere interpretata come rifiuto alla cittadinanza italiana.

Dott.ssa Irene Bendinelli 

[1] Art. 11. La cittadinanza si perde:

Da colui che vi rinunzia con dichiarazione davanti l'uffiiale dello stato civile del proprio domicilio, e trasferisce in paese estero la sua residenza;

Da colui che abbia ottenuto la cittadinanza in paese estero;

Da colui che, senza permissione del governo, abbia accettato impiego da un governo estero, o sia entrato al servizio militare di potenza estera.

La moglie ed i figli minori di colui che ha perduto la cittadinanza, divengono stranieri, salvo che abbiano continuato a tenere la loro residenza nel regno.

Nondimeno possono riacquistare la cittadinanza nei casi e modi espressi nel capoverso dell'articolo 14, quanto alla moglie, e nei due capoversi dell'articolo 6, quanto ai figli.