I like sui social possono rappresentare un incitamento all’odio razziale

13.07.2022

Cass. pen. sez. I, 06 dicembre 2021, n. 4534

La Cassazione penale torna a pronunciarsi su una tematica particolarmente calda per la realtà odierna, ossia l'uso dei social network che ormai hanno preso il sopravvento sulla quotidianità di ciascuno di noi.

Nello specifico, l'argomento qui trattato riguarda l'apposizione dei cosiddetti "Like", ossia manifestazioni di apprezzamento che l'utente rilascia al fine di esprimere la propria condivisione circa il contenuto di un determinato elemento pubblicato su un social network, sia esso un post, una foto o un video.

Ci sono limiti all'apposizione dei like sui social network oppure è assolutamente legittimo che l'utente abbia la libertà di farne uso senza alcun vincolo?

Ebbene, analizzando il contenuto della sentenza in commento si evince come anche il "semplice" "mi piace", rilasciato sotto a un post dal contenuto chiaramente razzista, possa integrare gli elementi tipici di un reato.

Più specificatamente, il ricorrente si opponeva ad un'ordinanza tramite la quale il Tribunale del riesame confermava l'ordinanza con cui il GIP aveva applicato al ricorrente la misura cautelare dell'obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria per il reato di cui all'art. 604-bis c.p., comma 2, (capo 1) e di quello previsto dagli artt. 604-bis e 604-ter c.p. (capo 2).

Per l'appunto il reato in questione, di cui all'art. 604 bis c.p., comma 2, capo 1, vieta "ogni organizzazione, associazione, movimento o gruppo avente tra i propri scopi l'incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi. Chi partecipa a tali organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi, o presta assistenza alla loro attività, è punito, per il solo fatto della partecipazione o dell'assistenza, con la reclusione da sei mesi a quattro anni. Coloro che promuovono o dirigono tali organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi sono puniti, per ciò solo, con la reclusione da uno a sei anni".

Tornado alla vicenda in esame, in seguito ai risultati emersi dallo svolgimento di attività investigative e da alcune conversazioni telefoniche, veniva riscontrato che il ricorrente si era posto ripetutamente in contatto, attraverso l'uso di account a lui ricollegabili, con una comunità virtuale operante su tre distinte piattaforme social (Facebook, VKontacte e Whatsapp), la quale era caratterizzata da una vocazione ideologica di estrema destra neonazista, avente tra gli scopi la propaganda e l'incitamento alla discriminazione per motivi razziali, etnici e religiosi, ma anche la commissione di plurimi delitti di propaganda di idee on line fondate sull'antisemitismo, il negazionismo, l'affermazione della superiorità della razza bianca nonché incitamenti alla violenza per le medesime ragioni.

Nello specifico, l'attività imputata al ricorrente consisteva nell'inserimento dei "like", nel rilancio di "post" e dei correlati commenti dal contenuto negazionista ed antisemita promossi dal gruppo online.

Il ricorrente contestava la categoria del reato a lui ascrivibile (art. 604 bis c.p., comma 2, capo 1), sostenendo che l'inserimento di soli "tre like" costituivano, tutt'al più, un'espressione di gradimento e, come tali, non erano affatto dimostrativi né dell'appartenenza al gruppo né della condivisione degli scopi illeciti.

Il ricorrente sosteneva, inoltre, che il contenuto dei post in cui aveva inserito il "mi piace" non sfociava nell'antisemitismo e non travalicava i confini della libera manifestazione del pensiero, non riscontrandosi, per di più, nessun messaggio idoneo ad influenzare il comportamento o la psicologia di un pubblico vasto, tale dunque da ritenere sussistente il pericolo concreto di comportamenti discriminatori, richiesto ai fini dell'integrazione del reato in esame.

La Cassazione penale dichiarava il ricorso inammissibile e confermava quanto già affermato dal Tribunale del riesame, ribadendo non solo l'effettiva appartenenza del ricorrente al gruppo virtuale, ma lasciando intendere che anche il Like può rappresentare un elemento atto ad animare atteggiamenti di incoraggiamento all'odio razziale.

Per tale ragione, la Corte considerava concreto il pericolo di diffusione dei messaggi tra un numero indeterminato di persone, "opportunamente valorizzando la pluralità di social network utilizzati e le modalità di funzionamento di uno di questi, Facebook, incentrate su un algoritmo che attribuisce rilievo anche alle forme di gradimento, i "like", espressi dall'odierno ricorrente".

Difatti, aggiungeva la Corte, che "la diffusione dei messaggi inseriti nelle bacheche "Facebook", già potenzialmente idonei a raggiungere un numero indeterminato di persone, dipende dalla maggiore interazione con le pagine interessate da parte degli utenti. La funzionalità "newsfeed" ossia il continuo aggiornamento delle notizie e delle attività sviluppate dai contatti di ogni singolo utente e', infatti, condizionata dal maggior numero di interazioni che riceve ogni singolo messaggio. Sono le interazioni che consentono la visibilità del messaggio ad un numero maggiore di utenti i quali, a loro volta, hanno la possibilità di rilanciarne il contenuto. L'algoritmo scelto dal social network per regolare tale sistema assegna, infatti, un valore maggiore ai post che ricevono più commenti o che sono contrassegnati dal "mi piace" o "like"".

Il pericolo concreto, derivante dall'uso dei social network quale Facebook, consiste principalmente nella creazione di una rete di utenti capaci dunque di accedere, consultare, condividere le informazioni disponili online, rilanciando eventualmente le stesse in modo tale da consentirne una rapidissima diffusione ed accessibilità da parte di un pubblico vasto e indefinito.

È dunque l'apposizione del like che attribuisce popolarità e favorisce la circolazione e conseguente condivisione del contenuto di un'informazione presente in rete.

Proprio per tale ragione è bene non sottovalutare il potere che anche un gesto apparentemente banale, come quello del like, può portare con sé, soprattutto se si considera che nel mondo digitale odierno è possibile rinvenire materiale di ogni genere, dai messaggi antisemita fino alla diffusione di immagini o video sessualmente espliciti che una volta caricati su piattaforme digitali diventano facile preda di qualunque utente.

Dott.ssa Federica Bontempi