Lo stato d’ira può incidere sulla capacità di intendere e di volere?

08.07.2023

Cass. pen., sez. III, 13 aprile 2023, n. 15678

Ecco la domanda che si è posta la Corte di Cassazione con riferimento al ricorso presentato dal difensore di fiducia di un uomo, ritenuto responsabile del reato di danneggiamento su cosa esposta alla pubblica fede.

Il Tribunale di Ascoli Piceno, con sentenza del 5 marzo 2019, aveva condannato il soggetto per il delitto sopra esposto, ritenendo insussistente la causa di non punibilità ex art. 131bis c.p.; condanna confermata successivamente dalla Corte di appello di Ancona.

L'imputato decide di ricorrere al Palazzaccio deducendo diversi motivi: innanzitutto, deduce la violazione di legge e vizio di motivazione in quanto la Corte lo avrebbe dovuto assolvere per mancanza dell'elemento soggettivo in ragione della sua non imputabilità dato che era emerso dall'istruttoria che "l'imputato non era persona autonoma ed era sottoposto ad amministrazione di sostegno" e come la sua condotta, grazie anche alla testimonianza di una donna, teste oculare, fosse sintomatica di un grado limitato di capacità di attendere ai propri interessi. Non solo: si parla, nella verbalizzazione della stessa persona offesa, di uno stato di ira e di nervosismo.

La difesa si concentra poi sull'insussistenza dell'elemento oggettivo in quanto, secondo il ricorrente, non risultano evidenti prove che il danno subito dall'autovettura in sosta della persona offesa sia stato il prodotto del pugno dell'imputato. Il difensore contesta poi il diniego della causa di non punibilità prevista dall'art. 131bis del codice penale poiché "la corte ha negato l'applicazione di tale istituto osservando che i precedenti penali a carico dell'imputato sono risalenti nel tempo ma comunque specifici e gli stessi evidenziano la tendenza dell'imputato a reiterare condotte analoghe e sintomatiche dell'abitualità del suo comportamento".

Gli Ermellini hanno dichiarato inammissibile il ricorso: lo hanno, infatti, definito generico in quanto reitera le censure già formulate con l'atto di gravame precedente. Non si limitano a ciò, anzi. Come già sostenuto da risalente giurisprudenza, la Cassazione conferma che "il giudice di merito ha il dovere di chiarare d'ufficio la mancanza di condizioni di imputabilità soltanto quando sia evidente la prova della totale infermità di ente, mentre l'eventuale vizio parziale di mente costituisce una semplice circostanza attenuante che deve essere allegata dall'imputato[1]".

Facciamo un passo indietro: cosa si intende per imputabilità e per capacità di intendere e di volere? Il codice fornisce la nozione di imputabilità all'art. 85: "è imputabile chi ha la capacità di intendere e di volere". La capacità di intendere è la capacità di capire cosa si sta facendo o l'attitudine ad orientarsi nel mondo esterno e percepire correttamente la realtà mentre la capacità di volere è, invece, la capacità di volere gli effetti che si sono prodotti, o, come preferisce qualcuno, la capacità di distinguere ciò che bisogna fare da ciò che non bisogna fare. Affinché il soggetto possa dirsi imputabile devono, pertanto, essere presenti entrambi gli elementi ovvero il soggetto deve essere capace sia di intendere che di volere. La capacità di un soggetto può essere esclusa completamente oppure grandemente scemata: esistono, infatti, nel nostro ordinamento il vizio totale ed il vizio parziale di mente, previsti agli artt. 88 e 89 del codice penale. L'art. 90 c.p., poi, prevede i cosiddetti stati emotivi o passionali che, però, pur potendo incidere sulla lucidità mentale di un soggetto, sono inidonei ad escludere l'imputabilità. Si pensi, ad esempio, alla gelosia o, appunto, allo stato di ira. Gli stati emotivi e passionali, per escludere o diminuire l'imputabilità ai sensi degli artt. 88 e 89, devono degenerare in un vero e proprio squilibrio mentale patologico, che nel caso di specie non è stato riscontrato.

Infatti, a detta della Cassazione, lo stato d'ira non può essere ritenuto elemento tale per cui la capacità di intendere e di volere dell'uomo debba ritenersi inficiata: la stessa afferma che "lo stato d'ira non incide sull'imputabilità poiché non integra un'infermità psichica ma uno stato emotivo; né la sottoposizione dell'imputato all'amministrazione di sostegno costituisce elemento sufficiente ed idoneo a palesare la sua incapacità anche solo parziale di comprendere il disvalore delle proprie condotte e di contenere la propria aggressività".

I motivi non convincono affatto gli Ermellini che ritengono corretta la sentenza e provvedono a dichiarare inammissibile il ricorso con la conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di 3'000 euro in favore della cassa delle ammende.

Dott.ssa Melissa Cereda

[1] Vedi anche Cass. pen. sez. VI, n. 41095 del 18/09/2013, mattina, Rv. 257805