Dirigente medico: libera professione, attività extramoenia e regime di incompatibilità

30.09.2022

Le molte riforme del sistema sanitario, la sua "regionalizzazione", la stratificazione e confusione normativa che ne è seguita, le scarse gratificazioni economiche e la cronica mancanza di personale, sempre più spesso spingono i medici verso il settore privato.

Quello della compatibilità tra il lavoro nella sanità pubblica e l'attività libero professionale privata, quindi, è diventato in tempi recenti un tema molto sentito e, purtroppo, anche abbastanza frequente nelle aule di giustizia.

Per chiarire quali siano i limiti di tale compatibilità, occorre premettere che, in linea generale, tutti i dipendenti pubblici sono vincolati al dovere di esclusività della prestazione lavorativa, sancito dall'art. 98 della Costituzione[1] e ribadito più volte dalle norme in materia di pubblico impiego[2].

Tale dovere impone al dipendente pubblico di riservare il proprio lavoro ad esclusivo vantaggio della pubblica amministrazione di appartenenza, allo scopo di garantire il rispetto dei principi di imparzialità e buon andamento dell'azione amministrativa di cui all'art. 97 Cost. e perseguire gli obiettivi di efficienza, efficacia ed economicità̀ dell'azione amministrativa.

In parole povere, imponendo al funzionario il dovere di esclusività si vuole evitare che egli sottragga tempo ed energia all'amministrazione, che finisca per trovarsi in una situazione di conflitto di interessi o, ancora peggio, che approfitti della propria funzione per avvantaggiare sé stesso o altri.

La violazione del dovere di esclusività è quindi sanzionata sia sul piano disciplinare (dalla sospensione fino all'eventuale licenziamento) sia sotto il profilo della responsabilità erariale (cioè con un possibile procedimento avanti alla Corte dei conti per il risarcimento dei danni causati all'amministrazione).

Il dovere di esclusività non è peraltro assoluto, essendo prevista la possibilità di deroghe per l'esercizio di attività secondarie, purché autorizzate dall'ente di appartenenza, previa verifica della loro compatibilità con l'impiego e dell'assenza di conflitti di interesse anche solo potenziali[3].

Quanto ai dirigenti medici, la legge prevede per loro un trattamento particolare, finalizzato a conciliare il principio di esclusività dell'impiego con la particolare struttura del Servizio Sanitario Nazionale, con la volontà di garantire degli spazi di crescita professionale individuale ed infine con l'esigenza di evitare un esodo verso il settore privato, che spesso offre maggiori soddisfazioni economiche.

La legislazione introdotta a partire dagli anni '90, in effetti, pur ribadendo l'unicità del rapporto di lavoro con il servizio sanitario, ha di fatto mitigato l'esclusività di tale rapporto, riconoscendo al medico un vero e proprio diritto di esercitare l'attività libero professionale anche fuori dell'ente di appartenenza, sia pure entro limiti precisi.

In primo luogo, l'art. 15 quater del D. Lgs. 502/1992 stabilisce che il rapporto di lavoro dei medici del S.S.N. è di regola esclusivo (comma 1), cioè deve essere svolto soltanto a favore di una singola Azienda Sanitaria, ma al contempo attribuisce la possibilità di optare per il rapporto di lavoro non esclusivo (comma 4).

L'art. 4, comma 7, della Legge 412/1991 precisa che con il Servizio sanitario nazionale può intercorrere un unico rapporto di lavoro e che quest'ultimo è incompatibile con ogni altro rapporto di lavoro dipendente, pubblico o privato, nonché con l'esercizio di altre attività o con la partecipazione in imprese che possono configurare conflitto di interessi con il Servizio Sanitario.

La stessa disposizione, però, stabilisce anche che il rapporto unico d'impiego è compatibile con l'esercizio di attività libero-professionale, purché espletata fuori dall'orario di lavoro all'interno delle strutture sanitarie o all'esterno delle stesse, con esclusione di strutture private convenzionate con il Servizio sanitario nazionale.

In buona sostanza, esaurito il proprio normale orario di lavoro presso l'Azienda sanitaria di appartenenza il medico può scegliere di svolgere la libera professione in regime cd. "intramurario" oppure, se è titolare di un rapporto di lavoro non esclusivo, in regime cd. "extramurario".

Nel primo caso (detto anche "intra moenia"), l'attività professionale viene svolta all'interno delle strutture dell'amministrazione, alla quale il medico devolve una quota del proprio fatturato per l'utilizzo dei locali, dei servizi di segreteria, delle apparecchiature e di quant'altro necessario[4].

In questa prima ipotesi i rapporti giuridici ed economici tra il medico e l'Azienda sono disciplinati dalla legge, dai contratti collettivi e dai regolamenti aziendali e non si pone alcun problema di incompatibilità.

Nel secondo caso (detto anche "extra moenia"), invece, al termine dell'orario di lavoro il sanitario svolge la libera professione presso una struttura sanitaria diversa da quella di appartenenza, ovviamente con l'autorizzazione di quest'ultima.

In questa ipotesi sorge quindi l'esigenza di evitare che il medico si possa trovare in una situazione di conflitto di interessi o possa addirittura arrecare danni al servizio sanitario.

Infatti, come si è visto, il medico può scegliere di avere un rapporto non esclusivo con la propria Azienda, ma è sempre tenuto a rispettare il principio di unicità dell'impiego con il S.S.N.

Proprio per questa ragione, l'art. 1, comma 5, della Legge n. 662/1996 ha precisato che "l'attività libero professionale da parte dei soggetti che hanno optato per la libera professione extramuraria non può comunque essere svolta presso le strutture sanitarie pubbliche, diverse da quella di appartenenza, o presso le strutture sanitarie private accreditate[5], anche parzialmente".

Come si vede, quindi, l'ordinamento vieta ai medici che operano nel S.S.N. di svolgere attività extra moenia presso strutture in qualche modo inserite nello stesso Servizio Sanitario o addirittura sovvenzionate da quest'ultimo.

Secondo la Corte Costituzionale, con l'introduzione di questi divieti "si è inteso garantire la massima efficienza e funzionalità operativa al servizio sanitario pubblico, sulle quali il legislatore ha ritenuto (anche, evidentemente, in base a dati di esperienza) che potesse spiegare effetti negativi il contemporaneo esercizio da parte del medico dipendente di attività professionale presso strutture convenzionate, con conseguente pericolo di incrinamento della funzione ausiliaria che esse sono chiamate a svolgere; e ciò si è voluto evitare in via generale ed astratta" [6].

Proprio alla luce dello scopo perseguito dal legislatore, e della peculiare posizione dei medici del S.S.N., la dottrina e la giurisprudenza che si sono occupate del tema ritengono che il divieto vada interpretato in senso ampio, in modo da prevenire all'origine possibili abusi e salvaguardare quei principi di imparzialità e buon andamento della Pubblica Amministrazione che, come si è visto, sono alla base dei principi di unicità ed esclusività.

Ad esempio, si è evidenziato che il principio generale di unicità del rapporto di lavoro del personale medico con il S.S.N. non riguarda soltanto i medici alle dipendenze di strutture pubbliche o di strutture private in qualsiasi maniera convenzionate, ma anche i medici liberi professionisti che operano in convenzione "ad personam" con il Servizio Sanitario o, ancora, coloro che esercitano attività professionale in regime di lavoro autonomo ma pur sempre presso una struttura privata convenzionata[7].

Anche la Corte di Cassazione[8], la Corte dei Conti[9] e soprattutto il Consiglio di Stato[10] hanno interpretato i divieti in senso molto ampio, stabilendo che l'incompatibilità si verifica anche quando il medico svolge la propria attività professionale extra moenia nell'ambito di una struttura accreditata solo parzialmente, e persino nel caso in cui il sanitario operi in una disciplina diversa da quella convenzionata e in un'unità operativa non accreditata.

In alcune regioni, peraltro, questo orientamento viene applicato in termini ancora più restrittivi.

Nella Regione Veneto, ad esempio, le "linee guida di indirizzo in materia di attività a pagamento Area della Dirigenza Medica e Veterinaria" approvate con DGR n. 1314/2016 (artt. 5 e 7) impongono alle Azienda Sanitarie di verificare con attenzione il rispetto delle incompatibilità da parte del medico in extra moenia e, nel fare ciò, di considerare come se fossero accreditate anche le strutture non accreditate che siano amministrate da persone fisiche che amministrano o comunque controllano anche strutture accreditate.

In conclusione, i dirigenti medici del S.S.N. hanno il diritto di esercitare la libera professione al di fuori del loro normale orario di lavoro e di scegliere se farlo all'interno dell'Azienda sanitaria di appartenenza (cioè in regime "intramurario") oppure - se hanno optato per un rapporto di lavoro non esclusivo - anche presso case di cura o poliambulatori privati (regime "extramurario").

In questo secondo caso, però, il medico dovrà ottenere l'autorizzazione dell'Azienda di appartenenza. Inoltre, secondo le chiare disposizioni di legge e la rigida interpretazione che ne ha offerto la giurisprudenza, occorrerà verificare con attenzione che la clinica privata non sia in alcun modo accreditata, neppure per strutture, unità operative e/o discipline diverse da quella in cui il medico intende esercitare.

Avv. Julien Mileschi

[1] Secondo cui "i pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione".

[2] L'art. 53 del D. Lgs. 165/2001 estende a "tutti i dipendenti pubblici la disciplina delle incompatibilità dettata dagli articoli 60 e seguenti del testo unico approvato con decreto del Presidente della Repubblica 10 gennaio 1957, n. 3", a mente del quale "l'impiegato non può esercitare il commercio, l'industria né alcuna professione o assumere impieghi alle dipendenze di privati o accettare cariche in società costituite a fine di lucro".

[3] Art. 53, comma 7, D. Lgs. 165/2001.

[4] I medici con rapporto esclusivo, in via del tutto occasionale, possono svolgere attività professionale richiesta da singoli utenti, in strutture di altre aziende del S.S.N. o in strutture sanitarie non accreditate, previa autorizzazione dell'Azienda e convenzione con la struttura interessata (art. 15 quinquies D. Lgs. 502/1992; art. 58, comma 7, CCNL 8/6/2000).

[5] Per conciliare il principio di universalità ed equità di accesso alle prestazioni sociosanitarie con quello di libera iniziativa economica, la legge regola l'intervento privato nel settore del welfare secondo il cd. "sistema delle tre A": Autorizzazione; Accreditamento; Accordi contrattuali. L'autorizzazione è la "patente di idoneità" che le strutture sanitarie private devono possedere per poter operare nel mercato delle prestazioni sociosanitarie; l'accreditamento comporta l'integrazione della struttura (che rimane privata) all'interno del Servizio Sanitario Nazionale, allo scopo di assicurare pienamente ai cittadini la cd. "libertà di scelta del luogo di cura" garantita dalla Costituzione; l'accordo contrattuale (o convenzionamento) è invece la fase attuativa dell'accreditamento, e consiste nella regolamentazione dei rapporti giuridici ed economici tra il soggetto accreditato e il S.S.N. Con l'accreditamento e la successiva convenzione, quindi, si riconosce alla struttura privata la possibilità di svolgere prestazioni rispettivamente per conto e a spese del Servizio Sanitario pubblico, che rimborserà la struttura privata in proporzione al tipo e al numero di prestazioni sanitarie erogate. V. C. Corbetta, "La sanità privata nell'organizzazione amministrativa dei servizi sanitari", Maggioli Editore, 2004, p. 192 e ss.

[6] Corte Cost. Sent. 23/12/1993 n. 457; Corte Cost. Sent. 23/12/1994, n. 450; Corte Cost. Ord. 02/06/1994 n. 214.

[7] Cfr. Corte dei Conti, Sez. Giurisd. Veneto, Sent. 13/11/2020 n. 106.

[8] Cfr. Cass. Sez. Lav. Sent. 5/08/1988, n. 9881.

[9] Cfr. Corte dei Conti, Sez. Giurisd. Veneto, Sent. 18/11/2019, n. 180.

[10] Cfr. Cons. Stato, Sez. IV, Sent. 15/06/2004, n. 4463; Cons. Stato Sez. IV, 08/05/2003, n. 2430; Cons. Stato Sez. III, Sent., 14/12/2018, n. 7052 ; Cons. Stato Sez. V, Sent. 23/11/1995, n. 1640.