Nati con la camicia. Le misure a contrasto della carcerizzazione dell'infante.

07.06.2023

Pensare che l'emergenza epidemiologica abbia fatto anche cose buone è discutibile e, forse, paradossale. Troppi i numeri da tenere a mente sin dagli albori del 2020 e nessuno riferibile a dati rassicuranti: il numero dei posti letto vacanti negli ospedali, il numero delle persone rimaste senza un lavoro, la conta triste delle vittime. Eppure, alcuni numeri rasserenanti si contano nel mondo della Giustizia che, seppur mossa da contingenze e dalla necessità di correre ai ripari, ha conosciuto due tendenze opposte, tra loro connesse e dagli indiscutibili effetti positivi.

La prima ha riguardato l'aumento delle possibilità di espiare la pena in regimi alternativi alla detenzione che, date le esigenze di distanziamento e il patologico sovraffollamento carcerario, sarebbe stata certamente dannosa per l'integrità psico-fisica tanto dei ristretti quanto degli operatori interni alle strutture; e la seconda, che ha invece riguardato la diminuzione delle presenze di bambini negli istituti di pena. Bambini incolpevolemente presenti negli istituti di pena, perché figli di madri detenute che, giovando delle rinnovate possibilità di espiazione della pena all'esterno, hanno potuto conoscere una parziale ritrovata normalità.

Al 31 gennaio 2023, le donne-madri ristrette all'interno degli Istituti di pena erano 15, accompagnate dai loro 17 bambini; una cifra, questa, notevolmente inferiore rispetto ai dati pre-pandemici che restituivano una fotografia desolante: 44 le madri detenute e 48 i bambini al loro fianco all'intero degli spazio loro dedicati: le "sezioni nido" o reparti detentivi sotto mentite spoglie.

A tendervi la mano, dal 2001, vi è l'istituto della detenzione domiciliare speciale, introdotto nell'ordinamento italiano con la legge n. 40 che si è occupata di tentare un premuroso approccio nei confronti dei figli di persone detenute. La citata legge, introducendo una disposizione ad hoc (art. 47 quinquies dell'ordinamento penitenziario), ha inteso colmare le lacune di tutela di quelle situazioni meritevoli ma non riconducibili nell'alveo applicativo dell'art. 47 ter, comma 1, in ragione dei limiti oggettivi di applicabilità ivi previsti (ossia della pena, anche residua, non superiore a 4 anni).

Si prevede, infatti, che il giudice possa disporre l'esecuzione della pena in regime di detenzione domiciliare pur in presenza di un quantum residuo di pena superiore al suddetto limite per le detenute madri di prole inferiore ai dieci anni.

Più in particolare, con l'introduzione del citato art. 47-quinquies, si è stabilito che nel caso in cui non ricorrano le condizioni di cui all'articolo 47-ter, le condannate madri di prole di età non superiore ad anni dieci, se non sussiste un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti e se vi è la possibilità di ripristinare la convivenza con i figli, possono essere ammesse ad espiare la pena nella propria abitazione, o in altro luogo di privata dimora, ovvero in luogo di cura, assistenza o accoglienza, al fine di provvedere alla cura e alla assistenza dei figli, dopo l'espiazione di almeno un terzo della pena ovvero dopo l'espiazione di almeno quindici anni nel caso di condanna all'ergastolo.

Così, anche alle madri condannate a pene detentive superiori a quattro anni, o che abbiano ancora un residuo di quattro anni di pena da scontare, è consentito accedere alla detenzione domiciliare speciale puché abbiano già scontato almeno un terzo della pena, o almeno quindici anni di essa, in caso di condanna all'ergastolo.

Idealmente, l'espiazione della pena dovrebbe svolgersi presso il proprio domicilio o altro luogo di privata dimora utile tanto alla madre, perché le consentirebbe di potersi progressivamente integrare nel contesto non solo familiare, ma, conseguentemente, anche sociale, quanto al bambino, al quale verrebbe restituita la possibilità di crescere in un ambiente dal sapore familiare che sappia di cura e non di punizione.

Le possibili ed eventuali esigenze di protezione, poi, potrebbero giustificare l'inserimento della donna e del figlio presso i cosiddetti istituti a custodia attenuata per detenute madri, in Italia ancora poco diffusi.

Ad ampliare, ulteriormente, l'applicabilità dell'istituto è altresì intervenuta la Corte costituzionale che, nel 2017, si è occupata di coordinare la misura in esame con il meccanismo ostativo previsto dall'art. 4 bis o.p.

Ed invero, dall'accesso a tali modalità agevolate di espiazione della prima frazione di pena erano espressamente escluse le madri condannate per un delitto ivi indicato.

Svolgendo una premurosa e articolata argomentazione, la Consulta ha ribadito la speciale rilevanza dell'interesse del figlio minore a mantenere un rapporto continuativo con ciascuno dei genitori. Pur non escludendo la possibilità di un giudizio bilanciamento con interessi contrapposti, pure di rilievo costituzionale, quali quelli di difesa sociale, la Corte ha rammentato di evitare qualsivoglia meccanismo presuntivo che neghi in radice l'accesso della madre alle modalità agevolate di espiazione della pena e che, dunque, impedisca al giudice di valutare la sussistenza in concreto delle ricordate esigenze di difesa sociale. Tanto portava a concludere per la dichiarazione di illegittimità costituzionale della parte della norma che escludeva l'applicabilità dell'art. 47 quinquies nei confronti delle madri condannate per taluno dei delitti indicati nell'articolo 4-bis.

La sensibilità sempre più penetrante dimostrata verso la tutela dei diritti dell'infanzia si scontra contro un parziale limite normativo che investe la figura del padre che, stando al tenore letterale della disposizione, avrebbe la possibilità di beneficiare della detenzione domiciliare speciale solo laddove la madre sia impossibilitata a provvedersi da sola. In merito al presupposto applicativo dell'istituto, la giurisprudenza della Corte di Cassazione (Cass. pen., sez. VI, 30.04.14, n. 29355) ha ritenuto che la madre debba essere assolutamente impossibilitata a dare assistenza alla prole, così intendendo l'impossibilità per il genitore non detenuto di garantire una presenza in famiglia che assicuri continuità affettiva, avendo riguardo soprattutto al rischio in concreto derivante per il figlio dal deficit assistenziale, sotto il profilo della irreversibile compromissione del processo evolutivo-educativo (Cass. Pen., Sez. I, 8 febbraio 2021, n. 4796).

Come è evidente, fil rouge di ogni intervento è la necessità, fin dove possibile, di evitare che l'interesse del bambino sia compromesso dalla perdita delle cure parentali, determinata dalla permanenza in carcere del genitore dai quali ha diritto di ricevere cura, educazione e istruzione a prescindere dalle eventuali precedenti esperienze devianti.

Dott.ssa Laura Giancola