Processo Open Arms: depositate le motivazioni dell’assoluzione a Salvini

23.06.2025

A cura di Dott.ssa Gemma Colarieti

Era l'agosto 2019 quando la ong umanitaria Open Arms chiedeva di far sbarcare in Italia i 147 migranti salvati in mare in tre diverse operazioni nel Canale di Sicilia. L'allora ministro dell'Interno Matteo Salvini negava il cosiddetto "Porto sicuro". Questo evento è stato oggetto di un processo penale, con le accuse a carico di Salvini per sequestro di persona e rifiuto di atti d'ufficio, conclusosi con una sentenza di assoluzione perché "perché il fatto non sussiste" in data 20 dicembre 2024.

Il 19 giugno 2025 i giudici del Tribunale di Palermo hanno depositato le 272 pagine che contengono le motivazioni della loro sentenza, in cui si legge che al tempo dei fatti in esame "non sussisteva né una cornice legislativa idonea a regolare ordinatamente i rapporti tra i vari soggetti coinvolti nelle operazioni di salvataggio nel mar Mediterraneo, almeno nel contesto delle operazioni ONG, né una definita, e condivisa, linea progettuale sulla gestione dei flussi migratori: tutto era rimesso a occasionali 'patti di redistribuzione' dei migranti tra le nazioni UE, cui si addiveniva, di volta in volta, su base volontaria". Invero, continua la Corte, "è pacifico che tutti tre gli eventi siano avvenuti in zone SAR non italiane, sicché deve escludersi che una responsabilità potesse derivare all'Italia per i tre eventi in questione in quanto Autorità/Stato responsabile della zona SAR ove si era verificato il salvataggio".

Infatti, dagli atti del procedimento emerge che lo Stato italiano non ha rivestito il ruolo di Stato di "primo contatto", come disciplinato dalle Linee guida Imo sul trattamento delle persone salvate in mare, bensì il primo intervento di salvataggio era avvenuto in zona SAR libica, il secondo maltese e, inoltre, il centro di coordinamento italiano non era stato neppure il primo ad essere "contattato", nei termini previsti dalle linee guida di cui all'allegato della Risoluzione MSC 167(78) dell'anno 2004, considerato che dei due consecutivi interventi di soccorso erano già state previamente investite le Autorità SAR responsabili delle aree ove erano avvenuti i salvataggi, Libia e Malta, nonché l'Autorità spagnola.

Tanto premesso, ed esclusa qualsiasi responsabilità di tipo "primario", "reputa il Collegio che lo Stato italiano (IRMCC) non avesse assunto la responsabilità della coordinazione del caso nemmeno come Stato di "primo contatto" e che, invece, di tale responsabilità dovesse ritenersi gravata la Spagna. D'altronde, né Spagna, né Malta, né Libia hanno mai invocato la responsabilità dell'Italia in relazione agli interventi di salvataggio".

La sentenza passa poi ad analizzare la rilevanza delle "raccomandazioni" alla cooperazione ed alla solidarietà tra gli Stati che "consentirebbero di affermare l'esistenza di un principio immanente per il quale tutti gli Stati contraenti avrebbero il dovere di cooperare tra loro per fare in modo che (a prescindere dalle specifiche responsabilità dello Stato competente per la zona SAR e dello Stato di primo contatto), non solo venga sicuramente prestata assistenza ai sopravvissuti, ma venga altresì loro assicurato lo sbarco prima possibile, comunque in tempi ragionevoli".

Tuttavia, continuano i giudici, il suddetto principio di solidarietà "per quanto sicuramente apprezzabile in chiave umanitaria, non risulta adeguatamente traslato nelle disposizioni delle convenzioni internazionali, non ricavandosi dalle stesse precisi obblighi di cooperazione tra gli Stati, quanto piuttosto mere esortazioni a raggiungere un sistema di cooperazione di coordinazione che possa garantire il salvataggio delle persone pericolo in mare e mettere i capitani delle navi in condizioni di assicurarlo, sgravandoli prima possibile del carico". Di conseguenza, per lo Stato inottemperante a tale principio solidaristico meramente raccomandato in ambito internazionale non è possibile far discendere conseguenze giuridiche alla stessa stregua del mancato rispetto di ben definiti obblighi giuridici. Ne consegue che "la vaghezza connaturata nella disposizione "raccomandatoria" e la sua scarsa cogenza" contrastino con il principio di tassatività, corollario del principio di legalità in materia penale. Tale principio trova fondamento costituzionale nell'art. 25 comma 2 e in maniera garantistica impone al legislatore di formulare le norme penali con espressioni sufficientemente precise, così che l'attività interpretativa non possa sfociare in arbitrio, a discapito della certezza del diritto ed estendendo il penalmente rilevante oltre i limiti caratterizzanti la frammentarietà della materia penale.