Guida pratica alla l. n. 40/2004: presupposti oggettivi e soggettivi per accedere alla PMA

12.05.2025

A cura di Avv. Michele Zabeo

È attesa in questi giorni la pronuncia della Corte Costituzionale sul diritto di accedere da parte di individui singoli alla procreazione medicalmente assistita (nota anche come PMA o fecondazione assistita). L'intervento della Corte Suprema è molto atteso ben potendo avere, in caso di esito favorevole, una portata dirompente sull'ambito di applicazione della l. 40/2004.

Per il vero non è la prima volta che la Corte si occupa di tale tematica, anzi, la disciplina in materia è stata fortemente ridisegnata nella sua essenza rispetto alla struttura originaria.

L'occasione funge da pretesto per approfondire una materia la quale è spesso foriera di confusioni e incertezze anche terminologiche: l'intento del presente articolo è, dunque, quello di fornire una panoramica sui presupposti per accedere a PMA.

Occorre però partire da una domanda preliminare: cos'è la PMA? Con tale acronimo si intendono e ricomprendono tutte quelle tecniche che permettono, attraverso procedure mediche, l'inizio di una gravidanza a soggetti che altrimenti non riuscirebbero ad avere figli.

Tali strumenti sono disciplinati dalla l. 40/2004 la quale ha, ab origine, avuto un'impostazione molto rigida e certamente limitante. La finalità, peraltro espressa all'art. 1 della medesima, è infatti quella di trattare la fecondazione medicalmente assistita come uno strumento di tutela della salute. Essa infatti è destinata ad ovviare problemi di sterilità o infertilità delle coppie fungendo, tuttavia, da strumento cui ricorrere in via residuale solo laddove non vi siano altri rimedi che permettano di risolvere tale problematica. L'accesso alle tecniche ex art. 4 co.II è peraltro improntato ai principi di gradualità nel tipo di tecnica prescelto e dell'acquisizione del preliminare consenso informato[1].

Da un punto di vista oggettivo, dunque, alla PMA può accedere solo chi si trovi in una condizione di incapacità a procreare ed occorre che ciò sia documentalmente provato in primis da risultanze mediche come previsto dall'art. 4 co. I.

Soggettivamente, invece, l'accesso a tali tecniche è regolato dall'art. 5 che detta specifici requisiti e, in particolare, deve trattarsi di coppie di sesso diverso, maggiorenni, in età fertile e purché entrambi siano viventi.

Una considerazione ulteriore da svolgersi è quella di distinguere concettualmente tra fecondazione omologa ed eterologa. Il dettato normativo non lo dice espressamente, ma laddove ammette la PMA, esso fa rinvio implicito al solo utilizzo di materiale biologico (spermatozoi ed ovociti) dei componenti della coppia che si sottopone a PMA. Dunque viene escluso l'uso di gameti provenienti da un donatore esterno alla coppia.

La stessa l. 40/2004 vietava tale pratica all'art. 4 co. III che, per il vero, era addirittura sanzionata penalmente. La ragione di tale originario divieto si rinveniva in una serie di argomentazioni tra cui, su tutte, la volontà di non creare incertezze sullo status di figlio del nato. Ciò rinviava, a sua volta, al già noto problema della divergenza tra il dato biologico e il dato sociale nel rapporto genitori-figli: con la fecondazione eterologa, infatti, si sarebbe avuto un genitore biologico (donatore) estraneo al ruolo genitoriale e un genitore sociale-non biologico privo di un legame giuridicamente rilevante pur svolgendo un ruolo genitoriale effettivo.

Tale divieto è rimasto intatto sino al 2014 quando, grazie ad una pronuncia della Corte Costituzionale[2], è stato superato tale limite ritenendo irragionevole l'esclusione de quo e ciò sulla base di due argomenti quali la tutela del diritto di salute perché altrimenti si escluderebbero dall'accesso a tali tecniche tutta una serie di soggetti con gravi problemi procreativi che impediscono loro una fecondazione omologa, sia per una tutela del diritto all'autodeterminazione del singolo individuo. Per tale motivo dal 2014 anche la fecondazione eterologa è ammessa in Italia.

Tale ipotesi non va confusa con un fattispecie completamente diversa sia concettualmente che giuridicamente ovvero la gestazione per altri (o GPA) anche nota come maternità surrogata. Tale metodologia è, infatti, ancora oggi vietata in Italia e penalmente sanzionata[3].

Tornando però ai requisiti soggettivi di cui all'art. 5, essi sono stati oggetto di interventi giurisprudenziali che, di fatto, hanno stravolto l'impianto originario e la platea di soggetti che possono accedere a PMA.

In una prima fase il problema che si è posto è stato se permettere l'accesso alle tecniche di fecondazione assistita da parte di coppie affette da malattie sessualmente trasmissibili o patologie genetiche. Il quesito nasceva dall'assenza di specifiche disposizioni sul punto.

Per quanto riguarda la prima ipotesi in verità le stesse linee guida ministeriali in materia di PMA avevano chiarito che, poiché si trattava comunque di una sottesa esigenza di tutela della salute del nascituro, tali coppie dovevano poter essere ammesse a PMA.

Per ciò che concerneva, invece, le coppie affette da patologie genetiche il problema sorgeva laddove si fossero dovute svolgere diagnosi preimpianto che permettessero di verificare se l'embrione che si era formato era affetto dalla patologia o meno e, dunque, poterlo scartare. È chiaro che qui l'ostacolo era rappresentato dalla tutela dell'embrione altro pilastro dell'impianto normativo e dal divieto di tecniche eugenetiche. Sul punto intervenne dapprima una pronuncia CEDU[4] che condannò l'Italia per violazione dell'art. 8 avendo posto in essere delle ingerenze nella sfera privata e familiare individuale. A questa seguirono due pronunce della Corte Costituzionale la quale (in particolare con la prima)[5] ritenne irragionevole e, dunque, illegittima l'esclusione di tali coppie dalla PMA. In tale circostanza si pose a base della decisione ancora una volta un argomento di tutela della salute del tutto similare a quello che aveva condotto ad ammettere le coppie affette da malattie sessualmente trasmissibili alla fecondazione assistita.

Il testo normativo è, invece, chiarissimo nel negare l'accesso a PMA alle coppie formate da persone dello stesso sesso. Tale divieto è da sempre rimasto invariato e la ragione risiede proprio nella finalità della legge n. 40/2004 la quale era stata pensata come rimedio per ovviare ad una patologia, l'infertilità o la sterilità appunto, presupposto che non ricorreva, invece, nel caso di coppie omosessuali. Se è pur vero, infatti, che tecnicamente anche quest'ultime non possono avere naturalmente dei figli, la loro infertilità è stata da sempre considerata fisiologica e non patologica e, dunque, non rientrante tra i casi in cui è ammessa la PMA. Tale esclusione, sia pur vagliata in alcune occasioni dalla Corte Costituzionale[6], è tuttora prevista.

Rimane da analizzare l'ultimo requisito previsto dall'art. 5 ovvero che entrambi i membri della coppia che accede a PMA siano viventi. L'esigenza nasceva dalla casistica dalla quale emergevano ipotesi in cui la moglie, sopravvissuta al marito premorto, intendeva iniziare o continuare la gravidanza iniziata grazie a PMA. Il problema sotteso è distinguibile in due sottocasi ovvero la fecondazione post mortem o l'impianto post mortem. Le due ipotesi sono da tenere ben distinte in quanto, mentre nella prima ipotesi si vorrebbe utilizzare i gameti del marito premorto per formare l'embrione idoneo ad iniziare la gravidanza, nel secondo caso l'embrione già esiste ma ciò che si svolge dopo la morte del marito è il solo innesto.

La prima ipotesi, ad oggi, risulta esclusa tanto dalla legge quanto dalla giurisprudenza e ciò in quanto si vuole evitare che nasca un bambino che sin dal principio non ha entrambi i genitore. Il presupposto è quello della bigenitorialità come situazione giuridica ed educativa ideale, e dunque da privilegiare, per ogni nato.

Viceversa per il solo impianto post mortem, si ritiene in giurisprudenza ormai da molti anni che la pratica sia ammissibile ponendosi, tuttalpiù, il problema di quale status attribuire al nato. Al riguardo si tende a ritenere che sia considerato padre il soggetto che ha prestato al consenso (come coppia) a svolgere la pratica di PMA.

In conclusione con il presente articolo si è voluto riprodurre schematicamente il quadro della l. 40/2004 alla luce anche delle sentenze costituzionali che l'hanno modificata. La pendente decisione in materia di cui si è dato conto ben potrebbe, dunque, riscrivere significativamente la disciplina aprendo a scenari in una materia in cui la politica legislativa è sempre stata molto cauta, ma in cui la Corte Costituzionale non è nuova a stravolgimenti.

[1] Si veda l'art. 6 l. 40/2004;

[2] Corte Costituzionale sentenza n. 162/2014;

[3] Si veda art. 12 l. 40/2004;

[4] Corte EDU sentenza Costa Pavan contro Italia;

[5] Corte Costituzionale sentenza n. 96/2015 e n. 225/2015;

[6] Corte Costituzionale sentenza n. 221/2019;