La promessa di pagamento, natura giuridica ed effetti processuali

04.11.2024

La promessa di pagamento consiste nella dichiarazione con cui un soggetto si obbliga ad effettuare una determinata prestazione.

Le dichiarazioni tese a impegnare un soggetto all'adempimento acquistano rilevanza nei soli casi ammessi dalla legge, come si ricava dalla norma ex art. 1987 c.c.

L'istituto della promessa di pagamento, difatti, trova la propria disciplina all'art. 1988 c.c., insieme a quello simile della ricognizione di debito.

Nello specifico, la norma specifica che tale promessa "dispensa colui a favore del quale è fatta dall'onere di provare il rapporto fondamentale".

In virtù del dettato normativo, grava sullo stesso promittente l'onere di provare l'inesistenza, l'invalidità, o comunque l'estinzione del rapporto a monte.

Nel prestare la promessa, il dichiarante può fare o meno riferimento al rapporto fondamentale a monte, in tal modo la promessa si distingue in titolata o pura.

Sulla natura giuridica, a lungo si è discusso in dottrina e giurisprudenza.

Per una prima, superata, impostazione, l'istituto è un mero atto giuridico, il quale produce effetti ex lege indipendentemente dalla volontà del promittente stesso.

Tale posizione si fonda sulla considerazione per cui il riconoscimento di un diritto altrui non richiede una specifica voluntas promittendi, poiché è sufficiente una manifestazione di consapevolezza dell'esistenza del debito e una volontà di rendere la promessa stessa.

Non manca chi ritiene che l'istituto non sia dotato in realtà di una propria autonomia, ma debba essere qualificato come dichiarazione confessoria in senso lato.

L'impostazione non può essere accolta.

Sul piano letterale, si precisa come, ai sensi dell'art. 2730 c.c., la confessione è una dichiarazione di fatti, mentre la promessa di pagamento attiene alla prova della causalità del trasferimento di ricchezza.

Sul piano topografico, la promessa di pagamento è disciplinata al Titolo IV del Libro IV del codice, in materia di obbligazioni, mentre la confessione è posta all'interno del Libro VI, in materia di tutela dei diritti.

In terzo luogo, sul piano degli effetti, mentre la confessione ha valore di prova legale, la promessa di pagamento ammette la prova contraria da parte del promittente.

La giurisprudenza, in ogni caso, riconosce pacificamente la natura negoziale della promessa di pagamento (e della ricognizione di debito).

È invalsa la consapevolezza per cui la promessa è una dichiarazione produttiva di effetti giuridici che trovano la propria origine non nell'ordinamento, bensì nella volontà stessa del promittente.

Tale promessa, dunque, è un atto giuridico unilaterale a contenuto patrimoniale, il quale produce i propri effetti quando indirizzato alla persona del creditore.

In quanto atto unilaterale, la norma di cui all'art. 1324 c.c. dà applicazione, quando compatibili, alla disciplina sui contratti; di talché, il carattere della recettizietà, ex art. 1334 c.c., porta con sé il corollario per cui l'atto unilaterale è improduttivo di effetti sino al momento della avvenuta conoscenza.

Tale aspetto consente al promittente di revocare la propria dichiarazione prima che entri nella sfera di conoscibilità del destinatario.

In merito alla forma che tale negozio deve rivestire, la giurisprudenza non persegue quell'orientamento che ritiene si applichi la c.d. forma per relationem.

A detta di tale impostazione, poiché la promessa è un negozio "di secondo grado", dovrebbe seguire la forma prescritta per quello a monte.

In senso contrario, si aderisce al principio della libertà delle forme, ove non diversamente statuito.

Circa gli effetti che la promessa di pagamento è in grado di produrre.

Come detto, tale promessa produce l'effetto di dispensare colui che la riceve dall'onere di provare il rapporto fondamentale alla base della prestazione, con una presunzione di causalità del pagamento.

La promessa non acquisisce alcuna rilevanza sul piano sostanziale; se così non fosse, infatti, l'istituto entrerebbe in conflitto con il principio causalistico, secondo cui ogni trasferimento di ricchezza deve essere sorretto da una causa lecita e meritevole di tutela.

La norma ex art. 1988 c.c., dunque, non è un'eccezione alla regola, ma è un istituto che produce effetti solamente sul piano processuale: la dichiarazione ha un effetto meramente confermativo del rapporto fondamentale a monte che si presume esistente.

Se ne ricava, a conferma del principio generale, che neppure la promessa di pagamento può essere priva del rapporto a monte che ne fonda la causa, se questo manca la promessa è nulla.

La particolarità sta nel fatto che qualsiasi aspetto attinente al rapporto stesso deve essere allegato e provato dal promittente-debitore.

In seno alla giurisprudenza, infine, si è posto il quesito sui poteri del destinatario dinanzi a una promessa di pagamento.

In merito, è necessario dare accenno al principio secondo cui è necessario il consenso del titolare del patrimonio per qualunque variazione dello stesso, non solo per il detrimento, ma anche per l'accrescimento.

Per tale motivo, una giurisprudenza sostiene che si possa configurare, nel nostro ordinamento, un vero e proprio divieto assoluto di arricchimento imposto.

Il divieto in esame opera come limite all'azione di ingiustificato arricchimento, nel senso che, quando la locupletazione non è stata voluta, oppure è stata subita, la parte "impoverita" non potrà agire ex art. 2041 c.c.

Tale principio è valido sia nei rapporti inter privati, che tra privato e P.A.

Stante la premessa, è pacifico il potere del destinatario di rifiutare gli effetti di cui alla promessa di pagamento.

Dott. Gennaro Ferraioli