Quel “pasticciaccio brutto” della truffa a tre soggetti

09.02.2022

Uno dei reati che più di frequente si verificano nella prassi è rappresentato dalla truffa ex art. 640 c.p. Secondo lo schema classico della fattispecie, il reato viene integrato quando l'autore della condotta, mediante artifizi o raggiri, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno.

Caso paradigmatico è rappresentato da Tizio che, fingendosi proprietario di una fontana nel centro della città, si fa consegnare una somma di denaro in cambio della proprietà della medesima. La traslazione della proprietà, tuttavia, non avverrà a causa del fatto che non è possibile acquisire la proprietà di un bene pubblico, quale è la fontana.

Se questo è lo schema classico, come si sa la realtà è di gran lunga più variopinta, e i rapporti sono ben più complessi di quelli rappresentabili in casi di scuola. Tale affermazione è ancor più valida se ci si confronta con il mondo degli scambi commerciali, dove spesso i rapporti si fanno complessi per l'ingente numero di prestazioni e di soggetti coinvolti. Spesso la realtà presenta plurimi rapporti di credito-debito tra clienti e fornitori che si possono immaginare come una matassa difficilmente districabile.

Di riflesso anche le condotte fraudolente si fanno ancora più complesse e di difficile individuazione, ma soprattutto di complessa qualificazione.

Da diversi anni la giurisprudenza si è infatti trovata ad affrontare il seguente quesito: è possibile configurare la truffa ex art. 640 c.p. qualora non vi sia coincidenza tra soggetto ingannato e soggetto che patisce il danno patrimoniale?

Per chiarire il quesito, si può ricorrere al seguente esempio. Tizio, cliente di Caio, è debitore nei confronti di quest'ultimo a seguito di una partita di fornitura per una somma pari a 2.000,00€. Un giorno, Sempronio si presenta da Tizio e, mostrando un atto di ricognizione di debito che Caio avrebbe nei confronti di Sempronio per un importo pari a 2.000,00€, richiede a Tizio la dazione della somma di denaro. Nonostante l'atto presentato sembrasse autentico, in realtà il credito è inesistente.

Partendo dalle premesse finora effettuate, nulla impedirebbe di ritenere sussistente la responsabilità penale di Sempronio per truffa ai sensi di quanto previsto esplicitamente dalla fattispecie: ricorrerebbe infatti un danno ingiusto, un profitto ottenuto dallo stesso autore della condotta illecita, la realizzazione (in questo caso) di artifici. Tuttavia, da tempo la giurisprudenza si interroga sulla necessità o meno della identità tra il soggetto che viene ingannato e quello che subisce la decurtazione patrimoniale, quale ulteriore presupposto per la configurabilità della truffa nei casi in cui siano coinvolte più persone.

Sul quesito si scontrano due diverse teorie ricostruite dalla Corte di Cassazione. Orientamenti che sono al tempo stesso influenzati dalla giurisprudenza di legittimità in ordine alla individuazione del criterio discretivo tra la fattispecie di truffa e quella di furto. Mentre in quest'ultimo caso la sottrazione del bene avviene invito domino, nella prima fattispecie si realizza una cooperazione della vittima frutto dell'inganno. Quota parte della giurisprudenza, di conseguenza, richiede ai fini della integrazione dell'art. 640 c.p. anche un atto di disposizione patrimoniale.

Le due diverse ricostruzioni in tema di necessaria identità tra soggetto ingannato e soggetto che subisce la decurtazione patrimoniale è così sintetizzabile. La Sezione seconda penale sostiene in plurime pronunce[1] che nulla si legge nella disposizione di cui all'art. 640 c.p. in ordine alla necessaria coincidenza fra i due soggetti, con la possibilità che i danni possano verificarsi nei confronti anche del solo ingannato; diversamente argomentando, sulla base proprio della necessaria sussistenza di una cooperazione artificiosa consistente nella realizzazione di un atto di disposizione patrimoniale da parte del soggetto che subisce il danno, la Sezione quinta afferma la necessaria coincidenza fra i soggetti[2]. Anzi, secondo questa seconda ricostruzione, il fatto sarebbe punibile non a titolo di truffa, ma di furto aggravato dai mezzi fraudolenti ai sensi del combinato disposto di cui all'art. 624 e 625, n. 2, c.p Si rientrerebbe infatti nel caso di una sottrazione di beni al di là della sfera di dominio del soggetto frodato.

Il quesito non è meramente teorico: come si è appena accennato, la distinzione si ripercuote anche sulla individuazione degli effettivi danneggiati. Secondo la prima ricostruzione, il danno della condotta illecita si identifica non solo nella mera decurtazione patrimoniale, ma anche nella eventuale esposizione dell'ingannato al duplice pagamento. Nell'esempio precedentemente descritto, Caio potrebbe non ottenere il pagamento alla scadenza, dovendo ricorrere alle vie giudiziarie e, di conseguenza, attendere le lungaggini della macchina giudiziaria. Inoltre, Tizio si esporrebbe al rischio, dopo aver già pagato a Sempronio, di dover pagare anche a Caio, il legittimo creditore.

Secondo invece la seconda ricostruzione, che qualifica il fatto come furto aggravato dai mezzi fraudolenti, l'unico e solo danneggiato sarebbe il soggetto che subisce la decurtazione patrimoniale e, di conseguenza, Caio. Nulla potrebbe pretendere Tizio, non avendo subito alcuna sottrazione di un bene di sua spettanza, così passando totalmente in secondo piano il rischio della sua esposizione a un duplice pagamento.

Si assiste a un vero e proprio scontro interpretativo, non ancora risolto dalle Sezioni Unite penali, in relazione a una questione di non secondaria importanza per gli operatori commerciali. Infatti, il rischio di dover pagare due volte senza tuttavia poter partecipare al processo penale quale parte civile potrebbe determinare una profonda lesione a una posizione che necessita di riconoscimento e di tutela. Lesione che potrebbe anche causare la totale carenza di risorse economiche e la possibile chiusura dell'attività economica.

Dott. Marco Misiti


[1] Si vedano, tra le altre, Cass. Pen., sez. II, sentenza 6 ottobre 2015, n. 2281; Cass. Pen., sez. II, sentenza 21 febbraio 2008, n. 10085.

[2] Si veda a proposito Cass. Pen., sez. V, sentenza 18 gennaio 2017, n. 18968.