Pubblicare l’altrui foto profilo di Whatsapp in un diverso social è reato

12.09.2025

Cass. Pen., Sez. V, 25 agosto 2025, n. 29683 

A cura di Avv. Francesco Martin

Massima: La pubblicazione non autorizzata della foto profilo WhatsApp di un'altra persona configura il reato di trattamento illecito di dati personali ex art. 167 del Codice della Privacy (d.lgs. 196/2003), specialmente se l'immagine ritrae anche un minore, coinvolgendolo in un contesto virtuale potenzialmente offensivo.

Il consenso all'uso dell'immagine come foto profilo WhatsApp non equivale affatto a una diffusione indiscriminata; la successiva pubblicazione della stessa su un gruppo Facebook, accessibile ad un pubblico molto più ampio e in un contesto denigratorio, integra una condotta di trattamento illecito di dati personali ex art. 167 d.lgs. 196/2003, aggravata dalla presenza di una minore nell'immagine. È irrilevante che la foto fosse visibile ai contatti WhatsApp: la sua ulteriore diffusione senza consenso, in particolare in contesti ostili o minacciosi, comporta un autonomo e grave vulnus alla riservatezza della persona ritratta e dei soggetti terzi (minori compresi), così come sancito dalla normativa e dalla giurisprudenza di legittimità.

I capi d'imputazione contestati all'imputato, per i quali era stata pronunciata una sentenza di condanna, riguardavano l'accesso abusivo a sistema informatico di cui all'art. 615-ter, comma 2, n. 1, cod. pen., trattamento illecito di dati personali di cui all'art. 167, d.lgs. 196/2003, diffamazione aggravata di cui all'art. 595, comma 3, cod. pen. e minaccia di cui agli artt. 81 e 612, comma 2, cod. pen..

In primo luogo, la Corte si sofferma sulla distinzione tra ingiuri e diffamazione

Ai fini della configurabilità dell'ingiuria è necessario che tra l'offensore e l'offeso si instauri un rapporto diretto, reale o virtuale, che garantisca a quest'ultimo un contraddittorio immediato, attuato con modalità tali da assicurare una sostanziale parità delle armi.

Dunque, la circostanza che sulla stessa piattaforma "social" vi sia un contraddittorio costante, ma pacificamente differito nel tempo, impedisce quella "parità delle armi" ovvero quella possibilità di immediata reazione da parte dell'offeso che giustifica la qualifica del fatto in termini meno gravi di ingiuria nei riguardi di soggetto presente, piuttosto che di diffamazione di chi non sia in condizione di difendersi immediatamente, ma solo in un secondo momento.

Dunque, deve ribadirsi il principio di diritto secondo cui integra il delitto di diffamazione, e non la fattispecie depenalizzata di ingiuria aggravata dalla presenza di più persone, l'invio di messaggi contenenti espressioni offensive nei confronti della persona offesa su una chat condivisa anche da altri soggetti, nel caso in cui la prima non li abbia percepiti nell'immediatezza, in quanto non collegata al momento del loro recapito.

Circa poi la parte inerente alla diffusione nell'immagine profilo utilizzato dalla persona offesa nella propria applicazione whatsapp la Suprema Corte rileva che non coglie nel segno la censura secondo cui, nel caso in questione, non vi sarebbe stato alcun nocumento, necessario al fine di integrare il delitto di trattamento illecito di dati personali di cui all'articolo 167 d.lgs. 196/2003 che punisce colui che, salvo che il fatto costituisca più grave reato, al fine di trarre per sé o per altri profitto ovvero di arrecare danno all'interessato, operando in violazione di quanto disposto dagli articoli 123, 126 e 130 o dal provvedimento di cui all'articolo 129 arreca nocumento all'interessato, è punito con la reclusione da sei mesi a un anno e sei mesi.

Tale requisito si sostanzia anche dalla mera pubblicazione su una chat di un numero di telefono privato, in assenza del consenso dell'interessato, in quanto tale condotta arreca, di per sé, un nocumento a quest'ultimo, che ben può essere di natura non patrimoniale.

Nel caso in esame la foto non risultava affatto fosse stata diffusa dalla persona offesa su social network, essendo, invece, per quanto dedotto dalla medesima persona offesa e rilevabile dai messaggi, a suo tempo utilizzata come foto del proprio profilo sull'applicazione di messaggistica, come tale accessibile solo ad una selezionata platea di contatti e comunque non certo da questi divulgabile.

La Cassazione, quindi, evidenzia che la pubblicazione non autorizzata di una foto privata su piattaforme diverse da quella per cui l'utente ha espresso consenso, in assenza di autorizzazione esplicita, integra di per sé il requisito del nocumento richiesto per la configurazione del reato di cui all'art. 167 d.lgs. 196/2003.

Il danno non deve essere necessariamente patrimoniale, ma si configura nella lesione della privacy e della dignità personale, aggravata dalla presenza di minori e dall'intenzione offensiva e minacciosa del messaggio che accompagna la pubblicazione.