Rigidità e aperture giurisprudenziali in materia di rettificazione di sesso anagrafico: la l. n. 164/1982

15.09.2025

A cura di Avv. Michele Zabeo

Una recente pronuncia della Corte Costituzionale[1], è occasione per analizzare la disciplina italiana in materia di rettificazione di sesso anagrafico e, altresì, di ripercorrerne gli sviluppi interpretativi e giurisprudenziali da ultimo manifestatisi nella sentenza citata.

La vicenda processuale da cui origina la pronuncia era la seguente: nel 2023 una persona di sesso anagrafico femminile, ma che in esso non si identificava né tantomeno in quello maschile, adiva il Tribunale di Bolzano per chiedere la rettificazione dei registri di Stato Civile e, in particolare, sosteneva di identificarsi in un genere terzo rispetto a quello maschile o femminile. 

Il giudice adito colse l'occasione per sollevare due questioni di legittimità costituzionale: una prima atteneva all'art. 1 della l. n. 164/1982 il quale, secondo il giudice a quo, trattando il tema della rettificazione di sesso pur non rifacendosi espressamente ad una concezione binaria dei generi, rimanda e ricade su un sistema come quello degli atti dello Stato Civile che invece è incardinato su un rigido binarismo. Da qui ne sarebbe derivata l'illegittimità costituzionale della norma per il fatto di non lasciare spazio ad un genere diverso da quello maschile o femminile.

La seconda questione di legittimità riguardava l'art. 31 del d.lgs 150/2011 il quale intervenne sulla disciplina processuale della legge n. 164/1982 e che al suo comma IV prevedeva: "Quando risulta necessario un adeguamento dei caratteri sessuali da realizzare mediante trattamento medico-chirurgico, il tribunale lo autorizza con sentenza passata in giudicato…". Ebbene il giudice a quo ritiene tale disposizione illegittima nella parte in cui impone un'autorizzazione giudiziale, dunque una valutazione strettamente giuridica, a fronte di un'indagine che, invece, sarebbe dovuta essere solo medica e, comunque, riconoscendo che tale filtro giudiziale sarebbe un evidente ostacolo o rallentamento all'affermazione di genere dell'individuo.

La Corte Costituzionale pur riconoscendo la rilevanza della prima questione, anche a fronte del mutato contesto sociale nazionale, si trova di fronte un ostacolo insormontabile rappresentato dalle ricadute generalissime che l'introduzione di un terzo genere implicherebbe e, dunque, pur riconoscendo l'opportunità di un intervento legislativo, si è trovata costretta a dichiarare inammissibile la questione posta[2].

Viceversa per quanto concerneva la seconda questione, essa veniva accolta ritenendosi illegittima la norma censurata:"… nella parte in cui prescrive l'autorizzazione del tribunale al trattamento medico-chirurgico anche qualora le modificazioni dei caratteri sessuali già intervenute siano ritenute dallo stesso tribunale sufficienti per l'accoglimento della domanda di rettificazione di attribuzione di sesso".

Come si diceva all'inizio di questo contributo, fermo restando la rilevanza di tale pronuncia in sé, essa dà lo spunto per una ricostruzione normativa della materia di cui si discorre e ciò al fine di determinare il panorama legislativo attualmente vigente.

Il punto di partenza è la già citata l. n. 164/1982 la quale all'epoca in cui è stata adottata, oltre 40 anni fa, aveva avuto il merito sicuramente di affrontare una tematica, quale quella della "frattura" tra sesso anagrafico e sesso percepito fino ad allora trattata con una certa reticenza. Basti pensare che solo pochi anni prima la Corte di Cassazione ebbe ad affermare che il convincimento psicologico del soggetto non bastava a giustificare il mutamento di genere[3].

La legge del 1982 disciplinava, invece, per la prima volta la procedura di rettificazione di attribuzione di sesso rinviando, dunque, nella sostanza alla disciplina contenuta nel Codice civile all'allora vigente art. 454 c.c..[4] In particolare l'art. 1 della l. n. 164/1982 subordinava la rettificazione de quo ad una sentenza-autorizzazione del Tribunale a seguito di intervenuto mutamento dei caratteri sessuali[5]. Il successivo art. 3 articolava la procedura descritta in due fasi: dapprima c'era una fase eventuale con la quale si perveniva all'autorizzazione, sempre resa da parte di un Giudice, per la sottoposizione al trattamento medico-chirurgico necessario e, solo una volta effettuati tali interventi, v'era una seconda fase necessaria con la quale il Tribunale si pronunciava appunto sulla rettificazione dei registri dello Stato Civile[6].

Su tale impianto normativo nel corso del tempo è intervenuta la Corte Costituzionale ed anche la Corte di Cassazione riformandone sostanzialmente la portata e la materia.

Dapprima la Cassazione ha assunto un ruolo fondamentale nel 2015 con la sentenza n. 15138 la quale per la prima volta ha messo in dubbio la necessità, ai fini della rettificazione del sesso anagrafico ex art. 1 l. n. 164/1982, del ricorso ad interventi medico-chirurgici di adeguamento dei caratteri sessuali. Peraltro ritenne la stessa Cassazione che spesso tali interventi implicavano dei rischi e delle ricadute in termini di salute e benessere della persona che, laddove resi rigidamente necessari, avrebbero esposto l'interessato all'insostenibile e, dunque inesigibile, alternativa tra l'affermazione di genere e la tutela della propria integrità fisica/tutela e della propria salute.

A tale pronuncia fece poi seguito la Corte Costituzionale con la sentenza n. 221/2015 che ribadiva il medesimo principio già espresso dalla Cassazione rendendolo ancor più chiaro[7].

Dunque all'esito di tali interventi giurisprudenziali il procedimento di rettificazione dei registri di Stato Civile veniva svincolato dal ricorso ad interventi chirurgici pur rimanendo la necessità di un adeguamento dei caratteri sessuali da farsi per altra via.

A livello normativo, poi, è intervenuto il Legislatore nel 2011 con il decreto legislativo n. 150 il quale incise sulla parte processuale della l. n.164. Venne, infatti, abrogato l'art. 3, contenente la disciplina della procedura di rettificazione di sesso articolata nelle due fasi anzidette, in favore della procedura più snella descritta dall'attuale art. 31 del medesimo decreto legislativo. Tale norma rendeva applicabile alla materia de quo il rito ordinario di cognizione oggi sostituito per espressa previsione della cd. riforma Cartabia dal rito in materia di "persone, minori e famiglia".

L'art. 31 si lega al punto da cui si è partiti e, infatti, il suo comma 4 prevedeva che. "Quando risulta necessario un adeguamento dei caratteri sessuali da realizzare mediante trattamento medico-chirurgico, il tribunale lo autorizza con sentenza passata in giudicato. Il procedimento è regolato dai commi 1, 2 e 3". Su tale impianto ha inciso la sentenza n. 163/2024 della Corte Costituzionale che, in verità, si è limitata nella sua censura rispetto al quesito posto e, peraltro, è incorsa in alcune contraddizioni logiche.

La Consulta, infatti, ha reso superflua l'autorizzazione giudiziale ai trattamenti medico-chirurgici, ma solo nel caso in cui vi sia già un percorso di transizione "approvato" da personale sanitario ovvero già iniziato.

Ebbene se il senso dell'autorizzazione giudiziale si rinviene, come tradizionalmente si afferma, nella necessità di verificare la reale volontà e consapevolezza del soggetto interessato di sottoporsi ad interventi chirurgici modificativi del proprio sesso anagrafico, come sottolineato dallo stesso giudice remittente, non si comprende come mai tale vaglio giuridico non debba esservi nel caso in cui il percorso di transizione sia già stato avviato attraverso il ricorso ad altri trattamenti non chirurgici di per sé idonei a determinare la rettificazione dei registri di Stato Civile: si tratterebbe, infatti, in entrambi i casi nel verificare la solidità del volere individuale. Viceversa se, come emerge dal testo della sentenza, l'autorizzazione giudiziale per gli interventi chirurgici non è più necessaria, allora dal momento che l'autorizzazione de quo deve verificare la reale consapevolezza del soggetto, essa non dovrebbe servire nemmeno in caso di transizione non ancora iniziata dovendo essere ogni valutazione demandata al solo personale medico. Ciò pur mantenendo fermo il residuo e posticipato vaglio giudiziale sulla domanda di rettifica dei dati anagrafici.

La Corte dunque si contraddirebbe laddove, dopo aver negato il necessario vaglio giudiziale per gli interventi chirurgici, lo limita ai soli casi di transizione già iniziata e non generalizzi tale rilevata illegittimità.

La spiegazione fornita da dottrina autorevole[8] è che si sia fatta una involontaria sovrapposizione tra l'accertamento dei presupposti necessari per ottenere l'autorizzazione giudiziale alla rettifica dei dati anagrafici ex art. 1 l. 164/1982, che presuppone sì il mutamento dei caratteri sessuali ma non più il necessario ricorso ai trattamenti chirurgici, e l'autorizzazione a tali eventuali trattamenti chirurgici ex art. 31 d.lgs 150/2011 che oggi, contrariamente a quanto sostenuto dal giudice remittente e all'esito della sentenza di illegittimità costituzionale, non necessita più di una preventiva autorizzazione giudiziale ma solo nel caso in cui il soggetto interessato abbia già iniziato il percorso di transizione mediante specifici trattamenti medici[9].

In altre parole: pur fronte ad una questione di legittimità costituzionale che coraggiosamente aveva messo in luce l'illogicità di pretendere un vaglio giudiziale in tutti i casi in cui una persona volesse intraprendere o avesse già iniziato un percorso di transizione (con domanda di rettificazione dei dati anagrafici), si è scelto di adottare un approccio più cauto e conservatore limitando la portata della questione sottoposta al vaglio costituzionale.

Emerge, dunque, in maniera evidente come la materia sia regolata da una normativa che sconta una radice storica e culturale ormai lontana, dissociata dalla realtà sociale attuale, ma che necessita interventi più coraggiosi da parte del Legislatore. In assenza di tali auspicabili modifiche normative, la giurisprudenza si è fatta carico di adattare ai tempi moderni la disciplina vigente pur con tutte le difficoltà e i limiti di tale operazione ermeneutica.


[1] Corte Costituzionale sentenza n. 143/2024;

[2] Corte Cost.sentenza n. 143/2024: "D'altronde, l'eventuale introduzione di un terzo genere di stato civile avrebbe un impatto generale, che postula necessariamente un intervento legislativo di sistema, nei vari settori dell'ordinamento e per tutti i numerosi istituti attualmente regolari con logica binaria";

[3] Corte di Cassazione, sentenza n. 2161/1980;

[4] Art. 454 c.c. (abrogato): "La rettificazione degli atti dello stato civile si fa in forza di sentenza del tribunale passata in giudicato, con la quale si ordina all'ufficiale dello stato civile di rettificare un atto esistente nei registri o di ricevere un atto omesso o di rinnovare un atto smarrito o distrutto.

Le sentenze devono essere trascritte nei registri";

[5] Art. 1 co. I: "La rettificazione si fa in forza di sentenza del tribunale passata in giudicato che attribuisca ad una persona sesso diverso da quello enunciato nell'atto di nascita a seguito di intervenute modificazioni dei suoi caratteri sessuali";

[6] Art. 3 (abrogato): "Il tribunale, quando risulta necessario un adeguamento dei caratteri sessuali da realizzare mediante trattamento medico-chirurgico, lo autorizza con sentenza.

In tal caso il tribunale, accertata la effettuazione del trattamento autorizzato, dispone la rettificazione in camera di consiglio";

[7] C.Cost. n. 221/2015: "L'esclusione del carattere necessario dell'intervento chirurgico ai fini della rettificazione anagrafica appare il corollario di un'impostazione che – in coerenza con supremi valori costituzionali – rimette al singolo la scelta delle modalità attraverso le quali realizzare, con l'assistenza del medico e di altri specialisti, il proprio percorso di transizione, il quale deve comunque riguardare gli aspetti psicologici, comportamentali e fisici che concorrono a comporre l'identità di genere";

[8] Si veda in tal senso: F.Azzarri, "Autorizzazione al trattamento chirurgico e riconoscimento delle identità non binarie nella procedura di rettificazione di sesso", in La nuova giurisprudenza civile commentata n. 1/2025;

[9] F. Azzarri ut supra: "L'ordinanza di rinvio, infatti, aveva segnala- to, per un verso, come il regime autorizzatorio rappresentasse un'eccessiva e immotivata ingerenza nel diritto all'autodeterminazione e alla salute della persona transessuale, a causa dei tempi e dei costi che ne sarebbero discesi quand'anche l'attore avesse già ricevuto un'indicazione medica favorevole – e dalla quale, peraltro, il giudice ben difficilmente avrebbe potuto di- scostarsi; e, per altro verso, come la vigenza di questo regime segnasse altresì una disparita` di trattamento tra chi doveva sottoporsi a un intervento chirurgico di modificazione dei caratteri sessuali per una disforia di genere e chi, invece, doveva sottoporsi a un intervento chirurgico di altra natura, ancorché parimenti serio e irreversibile, atteso che solo il primo soggetto sarebbe stato gravato dall'onere di ottenere il preventivo avallo giudiziale all'intervento";