Il trust testamentario e il trust inter vivos in funzione successoria: limiti di ammissibilità e tutela dei legittimari nell’ordinamento italiano

01.12.2025

A cura di Dott.ssa Linda Vallardi

Il trust rappresenta oggi uno degli strumenti più flessibili e sofisticati di pianificazione patrimoniale, grazie alla sua capacità di realizzare una netta separazione tra il patrimonio del disponente e quello del trustee, nonché di consentire una gestione dinamica e mirata dei beni secondo finalità determinate.

Sebbene la sua matrice sia di origine anglosassone, esso è ormai accolto e riconosciuto anche nell'ordinamento italiano, a seguito della ratifica della Convenzione dell'Aja del 1° luglio 1985, avvenuta con la legge 16 ottobre 1989, n. 364.

Ciò ha consentito al trust di trovare un proprio spazio operativo nel sistema civilistico interno, pur dovendo misurarsi con i limiti e i principi inderogabili del diritto successorio codicistico, in particolare con gli artt. 458, 549 e 692 c.c., nonché con la tutela dei legittimari.

In questo contesto, due figure assumono particolare rilievo: il trust testamentario e il trust inter vivos in funzione successoria. Entrambi perseguono, seppur con modalità differenti, l'obiettivo di regolare la sorte dei beni per il tempo successivo alla morte del disponente.

Nel trust testamentario, l'istituzione del vincolo di destinazione avviene mediante testamento. Il testatore può, infatti, disciplinare direttamente nella scheda testamentaria l'intera vicenda destinatoria, attribuendo i beni al trustee e definendone poteri, doveri e finalità.

In alternativa, può limitarsi a imporre all'erede o al legatario l'onere di istituire un trust con successivo atto inter vivos, in esecuzione di quanto disposto nel testamento. In ogni caso, l'effetto dispositivo si produce solo al momento dell'apertura della successione, e la funzione del trust rimane strettamente collegata all'attuazione della volontà testamentaria del de cuius.

La figura del trustee riveste un ruolo peculiare. Egli non è erede né legatario, ma gestore fiduciario di un patrimonio separato.

La proprietà che assume sui beni del trust è di natura funzionale e strumentale, priva di contenuto liberale e finalizzata unicamente all'attuazione del programma stabilito dal disponente. Il beneficiario, vero destinatario della liberalità, non acquista la proprietà immediata dei beni, ma un diritto ad ottenerne il godimento o la successiva attribuzione, secondo le modalità previste nell'atto istitutivo.

Uno dei profili più dibattuti riguarda la compatibilità del trust testamentario con il divieto di sostituzione fedecommissaria sancito dall'art. 692 c.c.

La giurisprudenza, in proposito, ha chiarito che il trust non integra una sostituzione fedecommissaria, poiché non comporta una doppia delazione successiva. Il trustee non è un primo chiamato tenuto a trasmettere i beni a un secondo soggetto, ma un gestore che li amministra per conto di beneficiari determinati o determinabili. L'attribuzione a suo favore ha dunque carattere funzionale e non successorio, sicché il beneficiario finale non subentra "per testamento", ma in virtù dell'esecuzione del programma fiduciario. Di conseguenza, il trust testamentario risulta compatibile con l'art. 692 c.c., purché non dissimuli una trasmissione ereditaria indiretta in contrasto con la norma.

Particolarmente delicato è il tema della tutela dei legittimari. La lesione della legittima, nell'ambito del trust testamentario, può manifestarsi sotto un duplice profilo: qualitativo e quantitativo. 

Si ha lesione qualitativa quando il testatore dispone in trust beni che dovrebbero integrare la quota di riserva, imponendo così un vincolo di destinazione su beni che la legge riserva ai legittimari. In tal caso, la disposizione è nulla ex art. 549 c.c., in quanto trasforma un diritto reale in un mero diritto di credito, privando il legittimario della titolarità diretta sui beni che gli spetterebbero. 

Si ha invece lesione quantitativa quando il trust disposto a favore di terzi riduce la quota di riserva; in questo caso il rimedio non è la nullità, bensì l'azione di riduzione, da proporre contro il beneficiario finale del trust, poiché il trustee non trae alcun vantaggio patrimoniale effettivo. Tale distinzione consente di preservare la validità del trust come schema giuridico, circoscrivendo la sanzione della nullità alle sole ipotesi in cui la lesione incida direttamente sulla natura della quota riservata.

Diverso è il caso del trust inter vivos in funzione successoria, che consiste in un atto tra vivi mediante il quale il disponente trasferisce i beni al trustee, destinandoli a determinati scopi o beneficiari, ma con effetti economici e beneficiari che si realizzeranno solo dopo la sua morte. In questa figura, la morte del disponente funge da termine o condizione di efficacia, ma non da causa della disposizione. La dottrina prevalente qualifica il trust inter vivos come donazione indiretta ai sensi dell'art. 809 c.c., poiché ne ricorrono gli elementi tipici della liberalità: l'animus donandi, l'impoverimento del disponente che si spoglia immediatamente dei beni, e l'arricchimento dei beneficiari, che ne trarranno vantaggio in futuro. Si tratta, quindi, di un atto che anticipa gli effetti dispositivi, pur rinviando la realizzazione dello scopo a un momento successivo alla morte.

Quanto alla compatibilità con il divieto di patti successori di cui all'art. 458 c.c., la giurisprudenza è unanime nel ritenere che il trust inter vivos non lo violi, poiché il disponente si spoglia effettivamente dei beni al momento della costituzione del trust. La morte rappresenta un mero evento condizionante, non l'origine del trasferimento. Ciò che il divieto intende impedire è la disposizione di beni futuri per il tempo della morte senza spossessamento attuale, non certo la creazione di vincoli patrimoniali che producono effetti gestori sin dal momento della loro costituzione. In tal senso, il trust inter vivos si distingue nettamente dal patto successorio, che presuppone l'assenza di effetti immediati e la validità solo post mortem.

Anche nel trust inter vivos la tutela dei legittimari resta un banco di prova decisivo. La giurisprudenza prevalente esclude che la costituzione di un trust lesivo della legittima comporti la nullità dell'atto, preferendo applicare l'azione di riduzione. La nullità, infatti, verrebbe a configurare una sorta di nullità sopravvenuta, priva di base normativa e contraria all'esigenza di certezza dei traffici giuridici. L'azione di riduzione, al contrario, offre un rimedio equilibrato, in grado di reintegrare la quota dei legittimari senza travolgere l'intero assetto negoziale.

Quanto al legittimato passivo dell'azione, la soluzione più accreditata distingue tre ipotesi: se le attribuzioni del trust sono già state eseguite, l'azione deve essere proposta contro i beneficiari; se il trust è ancora in fase di gestione, la legittimazione passiva spetta al trustee; se, infine, il beneficiario è già individuato ma l'attribuzione è differita, l'azione può essere proposta direttamente nei suoi confronti. Tale impostazione permette di bilanciare la tutela del legittimario con la funzionalità operativa del trust, evitando di paralizzarne la gestione o di colpire indiscriminatamente il trustee.

Un'ulteriore distinzione emerge sul piano dei rimedi. Nel trust testamentario, il legittimario vittorioso in sede di riduzione può esercitare l'azione di restituzione in natura ai sensi degli artt. 561 e 563 c.c., recuperando direttamente i beni oggetto della lesione. Nel trust inter vivos, invece, tale possibilità non è ammessa: trattandosi di una donazione indiretta, i beni possono essere stati alienati a terzi di buona fede, e la tutela del legittimario si riduce a un diritto di credito corrispondente al valore della quota violata. Si configura così una tutela più debole, ma coerente con la logica di circolazione e autonomia del trust.

In conclusione, il trust testamentario e quello inter vivos in funzione successoria si presentano come strumenti distinti ma complementari di pianificazione successoria. Il primo si inserisce nel solco della tradizione testamentaria, consentendo al testatore di affidare la gestione e la destinazione dei beni a un trustee dopo la propria morte. Il secondo, invece, anticipa gli effetti dispositivi e consente una gestione più flessibile e continuativa del patrimonio anche in vita. Entrambe le figure risultano compatibili con l'ordinamento italiano, purché rispettino i limiti imposti dal divieto di sostituzioni fedecommissarie, dal divieto di patti successori e dalla tutela dei legittimari.

La giurisprudenza, e in particolare la Corte di Cassazione, ha adottato un approccio pragmatico e di equilibrio, escludendo la nullità dei trusts lesivi della legittima e riconoscendo l'azione di riduzione come rimedio principale. Tale orientamento permette di garantire certezza agli operatori e coerenza sistematica tra la libertà di destinazione del patrimonio e la protezione dei diritti ereditari. Il trust, dunque, si conferma come uno strumento duttile ma rigoroso, idoneo a realizzare la volontà del disponente attraverso la separazione patrimoniale, a condizione che la sua struttura rispetti l'architettura inderogabile del diritto successorio e la salvaguardia dei legittimari, che rimane la pietra angolare del sistema ereditario italiano.