Interpretazioni stupefacenti dello spaccio di lieve entità

22.03.2023

Era circa il secolo scorso quando, all'indomani della nascita del partito fascista, il legislatore dell'epoca decise di occuparsi del contrasto alle sostanze stupefacenti, approvando la legge 369/1923 sulla repressione dell'abusivo commercio di sostanze velenose aventi azione stupefacente. Da quel momento in poi, una serie di innumerevoli interventi e proposte si sono susseguiti, alternando logiche proibizioniste a intenzioni assistenzialiste, a seconda che l'assuntore di sostanze – talora artefice anche del loro commercio – venisse identificato come nemico della società e dell'ordine pubblico o come malato da recuperare.

A seconda della prospettiva adottata, la legge poteva assumere intenti diametralmente opposti e, quindi, notevolmente repressivi in un caso e sensibilmente più garantisti, nell'altro.

La disciplina attuale in tema di contrasto all'utilizzo illecito delle sostanze stupefacenti, introdotta nel 1990 con il d.p.r. n. 309, costituisce la sintesi di questi orientamenti, riuscendo ad accorpare nello stesso impianto normativo (art. 73) la più severa delle fattispecie (comma 1) con il suo più dolce antidoto (comma 5).

Ed infatti, l'art. 73 del Testo unico sugli stupefacenti punisce chiunque, in assenza di autorizzazione, coltiva, produce, fabbrica, estrae, raffina, vende, offre o mette in vendita, cede, distribuisce, commercia, trasporta, procura ad altri, invia, passa o spedisce in transito, consegna per qualunque scopo sostanze stupefacenti o psicotrope (co. 1) prevedendo, al quinto comma, una fattispecie autonoma e attenuata applicabile a quei fatti che per i mezzi, la modalità, le circostanze dell'azione o per la qualità e quantità delle sostanze risultino di lieve entità.

Seppur delineata nei suoi caratteri essenziali, questa disposizione offre dei parametri di riferimento fin troppo duttili e poco utili a comprendere quando, concretamente, la condotta di spaccio possa essere ricondotta sotto l'ala più rassicurante del quinto comma. A ben vedere, infatti, la norma si limita a evocare, da un lato, i mezzi, le modalità e le circostanze dell'azione e, dall'altro, la quantità e qualità delle sostanze; criteri, questi, che per la loro vaghezza pongono diversi problemi sia in ordine al rispetto dei principi di tassatività-determinatezza della fattispecie penale sia in ordine alle difficoltà applicative che tale indeterminatezza produce.

A diradare la nebbia è intervenuta la Corte di Cassazione che, con più pronunce, ha tentato di rispondere ai quesiti lasciati irrisolti dal legislatore nella labirintica legislazione in tema di contrasto agli stupefacenti.

Il primo tra tali quesitiriguardava la possibilità di riconoscere la lieve entità del fatto nel caso in cui la condotta di spaccio avesse ad oggetto sostanze diverse. In effetti, la capacità del soggetto di procurarsi sostanze eterogenee tra loro potrebbe far presumere una sua maggiore pericolosità e, dunque, giustificare l'applicazione di una pena più severa. Ciò nonostante, le Sezioni Unite, chiedendo di evitare automatismi e presunzioni, hanno concluso affermando che qualora la quantità sia ridotta, il fatto di possedere diverse tipologie di stupefacenti non preclude l'applicabilità del comma quinto, in quanto la "lieve entità" deve essere valutata alla luce del caso concreto globalmente considerato, dal quale deve emergere una minore gravità dell'attività svolta dallo spacciatore a prescindere dalle sostanze movimentate (Cass., Sez. un., sent. 27 settembre 2018, n. 51063, ric. Murolo). A questo proposito, numerosi sono gli elementi fattuali che la giurisprudenza propone di valorizzare: il rinvenimento di bilancini di precisione e di strumentazione atta a tagliare e confezionare la sostanza, la situazione di vulnerabilità economica e lavorativa che denota una sproporzione tra il valore della sostanza detenuta e le condizioni economiche dell'imputato, la dimostrazione dello stato di tossicodipendenza, l'atteggiamento collaborativo o meno dell'imputato, il numero delle cessioni accertate, l'esistenza di un sodalizio criminoso stabile.

Con sentenza della III sez. penale del 22 ottobre 2019, n. 43262, poi, i Supremi Giudici hanno precisato che neppure il superamento dei limiti quantitativi può considerarsi, da solo, sufficiente ad escludere la lieve entità del fatto; ed anzi, in assenza di ulteriori indici sintomatici dell'attività di spaccio, tale circostanza sarebbe addirittura compatibile con la destinazione della sostanza ad uso esclusivamente personale, non punibile penalmente.

In altre parole, la detenzione di una quantità di sostanza superiore ai limiti che la legge stabilisce per l'uso personale non può mai tradursi, automaticamente, nella presunzione che quella sostanza sia destinata allo spaccio e al giudice sarà richiesto di motivare in modo accorto e rigoroso tutti gli ulteriori elementi dai quali si può escludere o affermare l'uso non personale dello stupefacente.

L'intenzione di colmare i dubbi applicativi del Testo unico sugli stupefacenti e di evitare applicazioni arbitrarie del severo primo comma, ha dato origine ad uno studio statistico che ha tentato di individuare la soglia media al di sotto della quale il fatto è stato ritenuto lieve. I dati restituiti dalla ricerca sono certamente più tangibili e, sebbene statistici, la Cassazione, con sentenza della Sez. 6 penale, num. 45061 del 2022, ne ha consentito l'utilizzo quale metro di giudizio nel caso concreto. Ad oggi, dunque, il quinto comma potrà essere applicato nel caso in cui la condotta abbia ad oggetto dosi di 23,66 g di cocaina, 28,4 g di l'eroina, 108,3 g di marijuana, 101,5 g di hashish.

La questione è tutt'altro che di poco conto se si considera la rigidità del trattamento sanzionatorio prevista quando il fatto debba essere inquadrato ai sensi del primo comma (da sei a 20 anni, a fronte della pena massima di quattro anni prevista dal quinto comma) sia in termini di quantum di pena applicata sia di modalità di esecuzione della pena detentiva e rende necessaria, in coerenza con il principio di ragionevolezza della pena, una interpretazione non restrittiva del carattere "lieve" del fatto e – prima o poi – un intervento legislativo mitigante in grado di dare stabilità alla strada già tracciata dalla giurisprudenza.

Dott.ssa Laura Giancola