Suicidio assistito: la Corte Costituzionale si pronuncia ancora
Corte cost., 18 luglio 2024, n. 135
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Il "fine vita" è argomento spinoso e assai dibattuto, in politica come nel diritto, in considerazione della grande attenzione che, giustamente, riveste per l'opinione pubblica, soprattutto dopo i casi, divenuti di cronaca, Eluana Englaro, Piergiorgio Welby e DJ Fabo. Grande ruolo in questa campagna di sensibilizzazione dei cittadini sull'argomento hanno rivestito, oltre che i mass media, le associazioni come quella fondata nel lontano 2002 da Luca Coscioni. Nonostante questo annoso e vivace dibattito sulla libertà di autodeterminazione, quindi di disporre anche del proprio fine vita, la politica non è riuscita ancora a dettare una regolamentazione puntuale e soddisfacente, pertanto, per rimediare alla lacuna del Legislatore è dovuta intervenire a più riprese la Corte Costituzionale, da ultimo con la sentenza 135/2024 dello scorso 18 luglio.
Andando per ordine, prima di analizzare l'approdo giurisprudenziale sul suicidio assistito, sono necessarie alcune precisazioni.
Innanzitutto, il suicidio assistito, in quanto pratica medica, non va confuso con concetti che, seppur collegati, sono differenti, quali l'eutanasia e il testamento biologico.
Infatti, il testamento biologico è la dichiarazione che un soggetto può fare in previsione di una sua eventuale futura incapacità di mente e a tal proposito la L. 219/2017 ha introdotto la possibilità per tutti di esprimere le proprie volontà in materia di trattamenti sanitari, fino al punto di rifiutare un trattamento sanitario salvavita in anticipo; mentre l'eutanasia, termine che deriva dal greco e significa letteralmente "buona morte", indica l'atto di procurare intenzionalmente e nel suo interesse la morte di una persona che ne faccia esplicita richiesta previa scelta consapevole e libera. In Italia l'eutanasia è un reato, punito ai sensi dell'art. 579 de codice penale come omicidio del consenziente.
Quanto al suicidio assistito, esso è l'atto del porre fine alla propria esistenza in modo consapevole mediante l'autosomministrazione di dosi letali di farmaci da parte di un soggetto "assistito" da un medico o da un'altra figura che rende disponibili le sostanze necessarie. Dunque, a differenza dell'eutanasia, il suicidio assistito necessita della partecipazione attiva del soggetto che ne fa richiesta perché prevede che la persona malata assuma in modo indipendente il farmaco letale e, di conseguenza, il sanitario deve limitarsi alla preparazione del farmaco che poi il paziente assumerà per conto proprio, ma non alla sua somministrazione[1].
Il suicidio assistito, oltre a non trovare disciplina in una legge approvata dal Parlamento, può costituire reato se integra la fattispecie di istigazione al suicidio di cui all' art. 580 del codice penale, che punisce chiunque determina altri al suicidio o rafforza l'altrui proposito di suicidio, ovvero ne agevola in qualsiasi modo l'esecuzione. Tuttavia, nel 2019 la Corte Costituzionale è stata investita dalla forte attenzione mediatica che ha suscitato il "caso Dj Fabo", soggetto affetto da tetraplegia e cecità a seguito di un incidente stradale, che aveva espresso la volontà di morire. Il suo desiderio è stato realizzato grazie all'aiuto di Marco Cappato, attivista per i diritti civili dell'"Associazione Luca Coscioni", che nel 2017 lo ha accompagnato in Svizzera. Al ritorno in Italia, Marco Cappato si è presentato dai Carabinieri per autodenunciarsi e nei suoi confronti è iniziato un procedimento penale per il reato di istigazione al suicidio.
Pertanto, la Consulta ha tentato di regolamentare i casi in cui effettivamente si può essere incriminati di istigazione al suicidio nel caso in cui si interviene con la pratica del suicidio assistito.
Con la sentenza 242/2019, la Corte Costituzionale ha stabilito che l'aiuto al suicidio non è punibile a condizione che:
- la patologia sia irreversibile;
- il paziente patisca dolori fisici e psicologici intollerabili;
- il paziente dipenda da macchinari o terapie di sostegno vitale;
- il paziente abbia la capacità di prendere decisioni in modo libero e consapevole, dunque deve essere in possesso della capacità di intendere e volere e deve prendere decisioni autonome e informate.
In quell'occasione, i giudici della Corte hanno richiamato principi e procedure dettagliate di cui alla L. 219/2017, cioè quella relativa al testamento biologico e hanno provveduto a dichiarare parzialmente illegittimo l'articolo 580 c.p. nella parte in cui non esclude la punibilità di chi agevola il proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona che versa nelle condizioni indicate. Per escludere la punibilità è anche necessario che l'accertamento delle condizioni e le modalità di esecuzione siano verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente[2].
Nel 2024, vista la perdurante assenza di una legge nazionale sul fine vita, dopo 6 anni la Corte Costituzionale è tornata a pronunciarsi sul suicidio medicalmente assistito con la sentenza del 18 luglio 2024, chiarendo i requisiti stabiliti dalla sentenza del 2019.
In particolare, la Corte ha affrontato le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal giudice per le indagini preliminari di Firenze, che miravano ad estendere l'area della non punibilità del suicidio assistito, chiedendo alla Consulta di eliminare il requisito della dipendenza da trattamenti di sostegno vitale poiché questo, ad avviso del giudice a quo, è in contrasto con alcuni principi costituzionali, quali l'uguaglianza, l'autodeterminazione terapeutica, la dignità e il rispetto della vita privata.
La Corte, rigettando la questione di legittimità costituzionale, ha confermato i requisiti per l'accesso al suicidio assistito individuati nel 2019, in cui, come precisato nell'ultima pronuncia, non si è riconosciuto un generale diritto di terminare la propria vita, bensì il diritto di rifiutare un trattamento di sostegno vitale,
Tuttavia, si è precisato cosa si intenda per "trattamento di sostegno vitale", nozione che include «anche procedure quali, ad esempio, l'evacuazione manuale, l'inserimento di cateteri o l'aspirazione
del muco dalle vie bronchiali – normalmente compiute da personale sanitario, ma che possono essere apprese anche da familiari o "caregivers" che assistono il paziente, sempre che la loro interruzione determini prevedibilmente la morte del paziente in un breve lasso di tempo»[3]. La Corte ha inoltre precisato che, ai fini dell'accesso al suicidio assistito, non vi può essere distinzione tra la situazione del paziente già sottoposto a trattamenti di sostegno vitale, di cui può chiedere l'interruzione, e quella del paziente che non vi è ancora sottoposto, ma ha ormai necessità di tali trattamenti per sostenere le sue funzioni vitali, dato che anche in questa situazione il paziente può legittimamente rifiutare il trattamento, egli si trova già nelle condizioni indicate dalla sentenza n. 242 del 2019.
Questo ragionamento risponde all'esigenza perseguita dai giudici costituzionali di bilanciare il diritto all'autodeterminazione con il dovere di tutela della vita umana.
[1] Sul punto si rinvia a www.eutanasialegale.it
[2] Corte costituzionale, sentenza 242/2019.
[3] Comunicato del 18 luglio 2024 dell'Ufficio Comunicazione e Stampa della Corte costituzionale.