Abbigliamento con connotazione religiosa nei luoghi di lavoro

30.09.2023

CGUE, 13 ottobre 2022 C-344/20

Con la Sentenza del 13 ottobre 2022 C-344/20, la Corte di Giustizia Europea ha ribadito il principio secondo cui "la regola aziendale che vieta ai dipendenti di manifestare verbalmente, abbigliamento o in qualsiasi altro modo, le loro convinzioni religiose o filosofiche, di qualsiasi tipo, non costituisce, nei confronti dei dipendenti che intendono esercitare le loro libertà di religione o di coscienza indossando visibilmente un segno o un indumento con connotazione religiosa, una discriminazione diretta basata sulla religione o sulle convinzioni personali, purché tale disposizione sia applicata in maniera generale e indiscriminata."

I simboli religiosi sono qualsiasi segno esteriore, atti ad esprimere l'appartenenza religiosa di un individuo e/o un preciso status dello stesso all'interno di un gruppo confessionale.

A proposito della sentenza in commento, l'uso simbolico di indumenti e capi di abbigliamento, come il burqua o hijab, è stato negli ultimi anni oggetto di crescente attenzione a livello europeo, specie in relazione ai conflitti di interesse del datore di lavoro al profitto e alla libertà religiosa dei lavoratori all'interno dei luoghi di lavoro.

Nelle carte internazionali il diritto alla libertà religiosa è tutelato all'interno delle principali Carte dei diritti fondamentali: nell'art. 18 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo del 1948 che afferma il diritto di ogni individuo alla libertà di pensiero, di conoscenza e di religione, nell'art. 9 delle Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell'Uomo e delle Libertà fondamentali (CEDU) del 1950, nell'art. 10 della Carta di Nizza e nell'art.6 co. 1 del Trattato di Lisbona che richiama per intero la disposizione della Carta di Nizza.

Nel nostro ordinamento, invece, riguardo ai simboli religiosi, tutto ruota attorno alla libertà religiosa prevista dall'art. 19 della nostra Costituzione che "stabilisce che tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata, purché non si tratti di riti contrari al buon costume."

Per ciò che riguarda i rapporti lavorativi, a ciascun individuo devono essere garantite le libertà di religione e l'uguaglianza di trattamento senza distinzione di religione anche nei luoghi e nei tempi del lavoro. Il nostro ordinamento assicura la piena libertà di opinione in materia religiosa del lavoratore, il divieto di licenziamento in base alle convinzioni religiosa o all'appartenenza confessionale e il divieto di porre in essere trattamenti discriminatori nei confronti del lavoratore ad una determinata confessione religiosa.

La pronuncia in commento ha destato attenzione nel nostro Paese, per i potenziali conflitti con le norme statali, anche penali, che impongono di indossare abiti particolari o tipici, lontani dalla nostra cultura e tradizione. Nel nostro ordinamento non c'è nessuna legge o norma specifica che faccia divieto di indossare in pubblico capi di abbigliamento prescritti delle confessioni religiose di appartenenza… tale libertà incontra, però, il limite che è quello dell'obbligo all'uso di indumenti che permettono l'immediato e sicuro riconoscimento personale con il conseguente divieto di uso pubblico, senza motivo, di qualunque mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona.[1]

L'ordinamento italiano manifesta un atteggiamento inclusivo che riconosce come leciti i simboli e i segni di tutte le confessioni religiosa compreso l'abbigliamento infatti, due circolari ministeriali hanno espressamente riconosciuto la compatibilità con la normativa di pubblica sicurezza, tra le quali quella islamica che impone l'uso del copricapo o del capo coperto, considerando il rispetto di tali prescrizioni, anche nella sfera pubblica, come espressione del libero esercizio del diritto fondamentale alla libertà religiosa. Con la circolare del 1995 è stato autorizzato l'uso del copricapo nelle fotografie destinate alle carte di identità e una circolare del 2000 che ha affermato che il turbante è parte integrante degli indumenti abituali e concorre ad indentificare chi lo indossa.

La giurisprudenza della Corte di Cassazione ha chiarito come "la limitazione al diritto alla libertà religiosa per motivi di ordine pubblico deve rispondere criteri di proporzionalità e di necessità, in relazione a specifici luoghi ed istanze ove sia riscontrabile una ragionevole e legittima giustificazione."

Dott.ssa Veronica Riggi

[1] L. 152/1975 (ordine e sicurezza pubblica)