Fare i leoni da tastiera ha delle conseguenze: la configurazione del reato di diffamazione aggravata

04.06.2022

Cass. Pen, Sez V, 25 marzo n. 10762/2022

Molti di voi avranno sicuramente sentito parlare di una delle ultime sentenze della Corte di Cassazione che definisce il termine "bimbominkia", utilizzato come insulto sulle varie piattaforme social, un termine tale da configurare il reato di diffamazione aggravata. In questo caso il tutto nasce da degli insulti ricevuti apertamente e direttamente dalla vittima su Facebook, portando dunque alla conseguenza appena nominata. Principio generale che segue da questa causa è appunto quello per cui non sia possibile insultare e discriminare un soggetto tramite social network, poiché si prefigura una casistica del reato citato pocanzi.

Sfortunatamente questo principio non è nuovo alla Corte di Cassazione, che già in passato ha dovuto affrontare un caso simile ma sicuramente di maggior complessità, dato che non erano presenti alcuni riferimenti nominativi e diretti alla persona offesa.

La sentenza in questione (Corte di Cassazione - sentenza n. 10762/2022, sez. Quinta Penale) riprende il caso di due donne che avevano pubblicato su Facebook dei post gravemente offensivi nei confronti di una conoscente. All'interno del testo non erano presenti nome e cognome, ma si faceva riferimento alla professione e al suo "nanismo"; quanto basta affinché amici e collaboratori potessero capire il soggetto destinatario delle offese.

Da ciò è scaturita un'azione legale da parte della destinataria dei post che ha portato ad una prima condanna nei loro confronti. In seguito a questa le due donne si sono rivolte alla Corte di Cassazione tramite ricorso, rilevando tre motivi:

  1. la prescrizione del reato;
  2. l'erronea applicazione della legge penale basandosi su l'impossibilità di riconoscere la persona lesa;
  3. la mancata riduzione della pena per la scelta del rito.

In seguito all'analisi del ricorso presentato, i Giudici di legittimità hanno ritenuto la sentenza precedente da annullare poiché il reato era effettivamente caduto in prescrizione.

Il secondo motivo, invece, risulta essere infondato. Questo in quanto sul profilo di una delle due imputate, infatti, si ha prova certa che siano apparsi post che integrano l'art. 595, comma III cp. La pubblicazione di contenuti simili, infatti, è "potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato, o comunque, quantitativamente apprezzabile, di persone". L'offesa, quindi, si configura nonostante "l'assenza di indicazione nominativa del soggetto la cui reputazione è lesa, qualora lo stesso sia individuabile, sia pure da parte di un numero limitato di persone, attraverso elementi della fattispecie concreta, quali la natura e la portata dell'offesa, le circostanze narrate, oggettive e soggettive, i riferimenti personali e temporali".

Nel caso in esame dunque, data la presenza di riferimenti tali da far individuare a più soggetti il soggetto a cui siano stati rivolti gli insulti per mezzo della piattaforma social "Facebook", si configura il caso di diffamazione aggravata. La conferma di ciò è data dal fatto che collaboratori e amici della persona offesa abbiano immediatamente colto i riferimenti presenti nei post pubblicati.

Non essendo condannabili per prescrizione del reato, le due donne sono state comunque condannate a risarcire il danno da reato.

Dott. Pierluigi Malazzini