Il diritto all’oblio e i nuovi diritti della personalità: a che punto siamo?

20.10.2025

A cura di Avv. Beatrice Donati

Il diritto all'oblio, negli ultimi anni, ha acquisito crescente rilevanza come strumento di tutela della dignità personale nell'ambiente digitale. 

Consiste, nella maggior parte dei casi, nella possibilità per una persona di ottenere la rimozione o la deindicizzazione di contenuti che la riguardano, laddove tali informazioni risultino non più attuali o lesive della propria reputazione, pur essendo state originariamente diffuse in modo lecito. Il fondamento di tale diritto si rinviene nell'articolo 2 della Costituzione, che riconosce e garantisce i diritti inviolabili della persona umana, nonché negli articoli 10 e 2043 c.c., relativi rispettivamente alla tutela dell'immagine e alla responsabilità extracontrattuale.[1]

La giurisprudenza italiana ha cominciato a riconoscere il diritto all'oblio in modo esplicito con la sentenza n. 3679 del 1998 della Corte di Cassazione, che ha posto l'accento sulla necessità di un bilanciamento tra diritto di cronaca e diritto alla riservatezza, quando la notizia, pur veritiera, sia divenuta priva di attualità e la sua ulteriore diffusione sia idonea a ledere l'immagine dell'interessato.[2]

Con l'evolversi della società digitale, la diffusione incontrollata di informazioni personali tramite motori di ricerca ha acuito il problema della permanenza e rintracciabilità dei dati, rendendo necessaria una riflessione aggiornata sull'equilibrio tra diritto alla memoria e diritto all'oblio.

Una svolta significativa è giunta con la pronuncia della Corte di Giustizia dell'Unione Europea nel caso Google Spain del 2014, che ha riconosciuto, in linea generale, la possibilità per l'interessato di ottenere la rimozione degli URL dai risultati di ricerca associati al proprio nome, qualora le informazioni non risultino più pertinenti, siano inadeguate o eccedenti rispetto alle finalità del trattamento.[3]

La Corte ha inoltre affermato che i motori di ricerca devono considerarsi responsabili del trattamento dei dati personali contenuti nelle pagine web indicizzate e che, di conseguenza, devono valutare le richieste di deindicizzazione presentate dagli utenti.

Sul piano normativo, il diritto all'oblio ha trovato un'espressa regolamentazione nell'articolo 17 del Regolamento (UE) 2016/679 (General Data Protection Regulation, GDPR), che disciplina il diritto alla cancellazione dei dati personali.

In particolare, la cancellazione può essere richiesta quando i dati non sono più necessari rispetto alle finalità per cui sono stati raccolti, l'interessato revoca il consenso al trattamento, i dati sono stati trattati illecitamente, oppure l'interessato si oppone al trattamento per motivi legittimi più importanti rispetto agli interessi del titolare.[4]

Nell'ambito della rete tale cancellazione si traduce, nella maggior parte dei casi, nella deindicizzazione dai motori di ricerca, ovvero nell'eliminazione dei link che rendono reperibile l'informazione tramite il nome dell'interessato.

Per esercitare il diritto all'oblio, l'interessato può rivolgersi direttamente al titolare del trattamento, solitamente il gestore del motore di ricerca. Ad esempio, Google mette a disposizione un modulo specifico per la richiesta di rimozione di URL, che deve contenere l'indicazione degli indirizzi da deindicizzare, le motivazioni della richiesta e l'eventuale documentazione di supporto (quali sentenze di assoluzione, certificati di archiviazione, provvedimenti del giudice, ecc.). Il titolare è tenuto a rispondere entro un termine ragionevole, solitamente pari a 30 giorni. In caso di mancata risposta o rigetto, l'interessato può presentare reclamo al Garante per la protezione dei dati personali, o proporre ricorso al giudice ordinario, ai sensi dell'art. 152 del Codice Privacy (d.lgs. 196/2003, come modificato dal d.lgs. 101/2018).[5]

È importante osservare che il diritto all'oblio non è assoluto. La richiesta di deindicizzazione deve essere valutata caso per caso, alla luce del bilanciamento tra il diritto alla reputazione e l'interesse pubblico alla conoscibilità dell'informazione.

I criteri considerati solitamente dalle autorità competenti includono: il tempo trascorso dalla pubblicazione, la veridicità della notizia, la sua attualità, l'eventuale archiviazione del procedimento penale, nonché la notorietà del soggetto. Ad esempio, una notizia relativa a un'indagine penale archiviata da oltre dieci anni potrà essere, nella maggior parte dei casi, rimossa dai risultati di ricerca, qualora l'interessato non rivesta più un ruolo pubblico e non vi sia un interesse concreto alla diffusione.

Qualora la diffusione online di contenuti ormai superati o pregiudizievoli determini un danno alla persona, il soggetto leso può agire in sede civile per ottenere il risarcimento del danno non patrimoniale, ai sensi dell'articolo 2043 c.c. Nella prassi giurisprudenziale, i Tribunali italiani riconoscono frequentemente il danno derivante dalla lesione della reputazione o dell'identità personale in presenza di contenuti obsoleti o inutilmente offensivi. L'entità del risarcimento è determinata caso per caso, con liquidazione equitativa. In base alle pronunce più ricorrenti, i risarcimenti oscillano in genere tra i 2.000 e i 20.000 euro, a seconda della durata dell'esposizione, del tenore della notizia e del danno documentato.[6]

Il diritto all'oblio si configura, quindi, come una tutela specifica della personalità nell'epoca digitale, destinata a convivere con altri valori costituzionali, quali la libertà di informazione e il diritto di cronaca.

La sua applicazione concreta richiede un approccio prudente, fondato su un esame attento delle circostanze del caso concreto e delle fonti normative e giurisprudenziali vigenti. Per questo motivo, nella maggior parte delle situazioni, è consigliabile rivolgersi a un professionista del settore legale, in grado di fornire una valutazione preliminare della richiesta e assistere l'interessato nelle eventuali procedure amministrative o giudiziarie.


[1] Art. 10 c.c. tutela l'immagine, mentre l'art. 2043 c.c. fonda il risarcimento del danno ingiusto.

[2] Cass. civ., sez. I, 9 aprile 1998, n. 3679.

[3] Corte di Giustizia UE, 13 maggio 2014, C-131/12, Google Spain SL e Google Inc. c. Agencia Española de Protección de Datos (AEPD) e Mario Costeja González.

[4] Regolamento (UE) 2016/679, art. 17.

[5] D.lgs. 196/2003, art. 152, come modificato dal d.lgs. 101/2018.

[6] Tra gli altri: Trib. Roma, 17 marzo 2020, n. 5778, in cui è stato riconosciuto un risarcimento pari a € 10.000 per la mancata rimozione di una notizia lesiva a seguito di archiviazione.