Il danno da perdita del rapporto parentale: il risarcimento è dovuto ai prossimi congiunti anche nel caso di soggetto macroleso

07.10.2023

Cass. Civ., Sez. III, 17 maggio 2023, n. 13540

In numerosi arresti la giurisprudenza, sia di legittimità che di merito, ha riconosciuto il risarcimento del pregiudizio subito a causa della perdita del rapporto parentale solo in seguito all'evento del decesso del congiunto.

Tuttavia, di recente, l'indirizzo giurisprudenziale dominante ha esteso la fattispecie anche ad altri eventi: la fonte dell'obbligazione risarcitoria è proprio la menomazione di quel rapporto parentale, che può verificarsi infatti sia in seguito all'evento più grave che colpisce il congiunto (la morte) che a causa di una grave lesione all'integrità psicofisica occorsa a quest'ultimo provocando una compromissione permanente per il normale svolgimento delle sue attività quotidiane.

In seguito ad illecito colposo (un infortunio sul lavoro, un sinistro stradale) i familiari del danneggiato hanno diritto di ottenere il risarcimento del danno non patrimoniale dall'autore del fatto lesivo in quanto tale situazione determina un inevitabile sconvolgimento delle ordinarie attività svolte da quell'individuo.

Invero la Suprema Corte ha assegnato rilievo autonomo alle voci di danno per perdita di rapporto parentale, come danno non patrimoniale risarcibile iure proprio ederivantedall'illecito civilecome effetto naturale di quest'ultimo, non come semplice danno riflesso inferto ai parenti della "vittima primaria".

Il caso affrontato dalla Cassazione riguarda il mancato riconoscimento del danno da perdita del rapporto parentale, ai congiunti della vittima di un sinistro stradale la quale, in ragione di esso, aveva riportato gravissime lesioni personali, poi tradotte in postumi permanenti (danni permanenti agli arti inferiori, che gli impedivano una deambulazione autonoma senza l'utilizzo di stampelle canadesi o altri supporti, vistosi esiti cicatriziali, problemi di decubito, disturbo post traumatico da stress a carattere cronico).

I prossimi congiunti ricorrevano alla Suprema Corte dopo che il giudice di secondo grado aveva negato il diritto al risarcimento del danno alla figlia convivente ed incinta all'epoca dei fatti,sull'assunto che ("la giovane, in ragione della gravidanza in atto, era ormai proiettata verso la sua nuova esperienza di madre e questo le avrebbe evitato di soffrire in misura apprezzabile per l'infortunio del padre").

(…) Inoltre, con ulteriore contraddizione, la sentenza recupera incomprensibilmente, per negare il risarcimento alla figlia, la rilevanza della figura dei nonni, genitori della vittima principale, benché non conviventi, affermando che la loro esistenza rilevasse al fine di lenire la sofferenza, e quindi il danno, degli altri congiunti".

A giudizio della Cassazione non poteva essere negato tale diritto sulla base di una sorta di compensazione dello sconvolgimento morale subito dalla ricorrente a causa dell'infortunio del padre con l'evento della futura nascita del figlio: a ben vedere infatti, si deve tenere altresì conto della "presunzione di afflittività" che coinvolge i prossimi congiunti in seguito ad un evento traumatico di tale genere. Per le medesime ragioni non poteva inoltre essere invocata l'esistenza dei nonni come rimedio palliativo alla sofferenza patita dalla figlia a causa della perdita del rapporto parentale con il proprio padre, ormai menomato in maniera permanente nella sua integrità psicofisica.

"Ugualmente, e con ancor più censurabile superficialità e noncuranza, ha errato la corte d'appello laddove ha escluso che la figlia del ricorrente, diciannovenne all'epoca dei fatti e convivente con la famiglia di origine, possa aver patito alcun pregiudizio non patrimoniale solo "perché incinta all'epoca dei fatti". In primo luogo, la sentenza non fa corretta applicazione, anche in questo caso, dei principi sopra indicati, che indicano una presunzione di afflittività in favore dei prossimi congiunti, tanto più se, come in questo caso, conviventi. Le considerazioni della corte d'appello secondo le quali poi la ragazza, in quanto proiettata verso la sua futura esperienza di madre, non avrebbe sofferto più di tanto per il fatto dannoso, destinato invece necessariamente a proiettare la sua ombra sia sull'evento della nascita che sulla successiva organizzazione della vita familiare, cambiando il modo di vita, la distribuzione dei compiti, le attività della sua famiglia d'origine, e da offuscare la gioia e la condivisione familiare per il bambino in arrivo, appaiono totalmente inconsapevoli delle ripercussioni della mancanza del supporto di un genitore attivo (e probabilmente, della mancanza del supporto di entrambi i genitori, atteso che la madre sarà stata in gran parte assorbita dalla necessità di prestare assistenza al marito), sul quale la ragazza sapeva di poter contare proprio in ragione della convivenza, nel difficile momento della nascita, così giovane, del primo figlio".

In seguito al fatto illecito occorso al danneggiato principale (il padre), la ricorrente ha subito un irreversibile danno alle proprie abitudini di vita anche in considerazione del fatto che la medesima conviveva con il padre ed aveva perciò ragionevolmente, fatto affidamento sul supporto morale ed economico di entrambi i genitori in vista della sua futura condizione di genitore. Pertanto, il diritto al risarcimento del danno in capo alla ricorrente si configura come voce autonoma, in quanto l'evento principale ha causato un mutamento delle ordinarie condizioni di vita non solo della vittima del sinistro ma anche della figlia, precludendo a quest'ultima il diritto di conservare intatto il rapporto parentale che si basa sulla collaborazione, sostegno e reciproca assistenza di tutti i membri della Famiglia, sia nei rapporti esterni che nell'ambito delle mansioni domestiche. 

Dott.ssa Martina Buzzelli