Il diritto al silenzio
C.Cost., 5 Giugno 2023, n.111
La recentissima sentenza n.111 del 5 giugno 2023 della Corte Costituzionale è destinata a far parlare di sé per moltissimo tempo.
Con questa pronuncia la Corte Costituzionale si è apprestata, infatti, a dichiarare l'illegittimità costituzionale dell'art. 64 comma 3, cod. proc. pen "... nella parte in cui non prevede che gli avvertimenti ivi indicati siano rivolti alla persona sottoposta alle indagini o all'imputato prima che vengano loro richieste le informazioni di cui all'art.21 norme att.cod. proc.pen.", e anche dell'art.495 primo comma, cod. pen., "nella parte in cui non esclude la punibilità della persona sottoposta alle indagini o dell'imputato che, richiesti di fornire le informazioni indicate nell'art.21 norme att.cod.proc.pen, senza che siano stati loro previamente formulati gli avvertimenti di cui all'art.64, comma 3, cod. proc. Pen., abbiano reso false dichiarazioni."
Il fatto da cui è scaturita la questione di legittimità, è quello che ha investito il Tribunale Ordinario di Firenze, che ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell'art.395 c.p.p., in riferimento agli articoli 3 e 4 della Costituzione circa la parte relativa alle false dichiarazioni rese in un procedimento penale dalla persona sottoposta alle indagini o dall'imputato in merito ai suoi precedenti penali e alle circostanze di cui all'art.21 delle disposizioni attuative del codice di procedura penale.
In particolare, il Tribunale di Firenze aveva l'onere di giudicare della responsabilità penale per il reato di cui all'articolo 395, dell'imputato che in fase di identificazione aveva dichiarato di non avere precedenti penali in Italia, risultando, poi, che aveva riportato già due condanne divenute definitive.
Sulla questione, il giudice rimettente, osservava che stando a quanto precisato nel codice di procedura penale, l'indagato o l'imputato debbano essere avvertiti della facoltà di non rispondere alle domande inerenti il fatto che si contesta, ma sono tenuti a rispondere circa le circostanze personali previste nell'art.21[1] disp.att. Cod. proc. Pen.
La Corte Costituzionale, perciò, veniva investita dal Tribunale Ordinario di Firenze, del compito di affermare se la disciplina dell'articolo 395 c.p., fosse compatibile con il c.d. "diritto al silenzio", riconosciuto sia nell'art.24 Cost., sia nell'art.6 CEDU, ma anche nell'art. 14 del patto Internazionale sui diritti civili e politici adottato dalle Nazioni Unite.
Il predetto diritto al silenzio, è parte integrante del nostro processo penale ponendosi come espressione della dignità umana ma anche come corollario essenziale dell'inviolabilità del diritto di difesa sancito nell'art.24 della Costituzione, e della presunzione di colpevolezza a norma dell'art.27 Cost.
Con la propria pronuncia, la Corte Costituzionale, ha inteso sottolineare come esso operi in tutti quei casi in cui, pur procedendo relativamente alla commissione di un reato, l'autorità sottoponga all'indagato o all'imputato delle domande che esulino dai fatti, vertendo, invece, su informazioni personali che potrebbero essergli usato contro durante il processo o potrebbero avere un certo impatto sulla condanna o la sanzione da infliggere.
La Corte interrogandosi sulla possibilità per cui le circostanze di cui all'art.21 norme att. Cod. proc. Pen., si debbano ritenere coperte dal diritto al silenzio ex art.24 Cost, ha ritenuto necessario svolgere una valutazione sulla capacità della legge di tutelarlo in modo adeguato.
A tal proposito ha rilevato, infatti, che l'odierno assetto normativo e giurisprudenziale determina una insufficiente tutela del diritto al silenzio, soprattutto in relazione al principio di effettività della garanzia dei diritti fondamentali che vengono riconosciuti dalla Costituzione con attinenza al diritto di difesa[2], in quanto "si esige che la persona sottoposta alle indagini o imputata sia debitamente avvertita, segnatamente, del proprio diritto di non rispondere alle domande e relative alle proprie condizioni personali diverse da quelle relative alle proprie generalità, e della possibilità che le sue eventuali dichiarazioni siano utilizzate nei suoi confronti".
Ciò posto, quindi, risulta chiaro che le considerazioni svolte dalla Corte hanno fatto perno sul fatto che sia la Costituzione che le norme internazionali poste a tutela dei diritti Umani, consentono la possibilità di imporre ad una persona sottoposta ad indagini o all'imputato di rispondere con affermazioni veritiere, a domande in merito alle proprie generalità, ma non è altresì costretto a fornire ulteriori informazioni di carattere personale finendo con il collaborare con le indagini e la propria incriminazione.
[1] Ci si riferisce a domande molto personali relative alla situazione patrimoniale, alla situazione familiare, ad eventuali precedenti penali riportati, all'esercizio di uffici o pubblici servizi, ecc.
[2] Nella sentenza, la Corte Costituzionale riporta la sentenza n.238/2014, la n.323/1989 e la n.18/1982, che hanno