La natura giuridica della sentenza dichiarativa di "fallimento" (oggi liquidazione giudiziale)

24.04.2024

L'incertezza sulla natura giuridica della sentenza dichiarativa di fallimento è una questione delicata, nonché una delle più dibattute degli ultimi tempi, caratterizzata dalla contrapposizione tra le più autorevoli dottrine ed un orientamento giurisprudenziale ormai costante da più di 50 anni.

La giurisprudenza, sulla scia tracciata dalla pronuncia a Sezioni Unite del 1958, c.d. sentenza Mezzo, ha sempre qualificato la sentenza dichiarativa di fallimento quale elemento costitutivo del reato.

Le condotte tipizzate dagli artt. 216 non avrebbero un'autonoma capacità lesiva fintanto che non sopraggiunga la sentenza dichiarativa di fallimento la quale, non si limita a rendere punibili reati già perfetti nei loro elementi costitutivi, ma costituisce il presupposto per attribuire a quegli stessi fatti rilevanza penale e meritevolezza di pena.

In realtà, la definizione del fallimento come elemento costitutivo del reato appare contraddittoria.

Secondo il medesimo orientamento, non si ritiene necessario un vero e proprio nesso di causalità fra le condotte e il fallimento, non essendo quest'ultimo inquadrabile come evento del reato. Parimenti, non si pretende un collegamento psicologico tra le condotte e la dichiarazione di fallimento.

Tuttavia, l'orientamento inaugurato nel 1958 ha prevalso ininterrottamente sino al 2012 quando, con un'isolata quanto coraggiosa pronuncia (Sentenza Corvetta), la Suprema Corte, nel 2012, si è discostata dalla giurisprudenza tradizionale mettendone in discussione l'impianto motivazionale attraverso una rilettura in chiave costituzionalmente orientata della questione.

La rivisitazione in chiave moderna delle vecchie posizioni trae origine dal medesimo punto di partenza delle pronunce del passato, per cui la sentenza dichiarativa di fallimento rileva quale elemento costitutivo del reato, qualificandolo, però, quale evento del reato di bancarotta.

La pronuncia in questione afferma a chiare lettere la necessità che lo stato di insolvenza – proprio in quanto elemento costitutivo della fattispecie, sub specie di evento del reato – deve sia porsi in rapporto causale con la condotta dell'agente, sia essere preveduto e voluto dallo stesso, quanto meno a titolo di dolo eventuale.

Tale orientamento, tuttavia, è rimasto un episodio unico; le successive pronunce, infatti, hanno confermato la tradizionale impostazione interpretativa secondo cui la dichiarazione di fallimento non costituisce l'evento del reato di bancarotta e, conseguentemente, è irrilevante il nesso causale e il nesso psichico tra la condotta e la causazione dell'insolvenza.

La Cassazione, anche nella sentenza Parmalat, riprende il tradizionale insegnamento delle Sezioni Unite Mezzo, 25 gennaio 1958, n.2 secondo cui la sentenza dichiarativa è elemento costitutivo, diverso dall'evento, delle principali fattispecie di fallimento.

La Suprema Corte nella successiva sentenza Santoro (n.13910 /2017) assume una posizione diametralmente opposta rispetto a quelle prospettate dalla giurisprudenza, aderendo all'impostazione fatta propria dalla dottrina e qualifica la sentenza dichiarativa di fallimento come condizione obiettiva di punibilità estrinseca.

«La dichiarazione di fallimento – si legge nelle motivazioni – non aggrava in alcun modo l'offesa che i creditori soffrono per effetto delle condotte dell'imprenditore; ne consegue che, in quanto evento estraneo all'offesa tipica e alla sfera di volizione dell'agente, rappresenta una condizione estrinseca di punibilità che restringe l'area del penalmente illecito, imponendo la sanzione penale solo in quei casi nei quali alle condotte del debitore, di per sé offensive degli interessi dei creditori, segua la dichiarazione di fallimento».

Dunque, il fallimento costituisce un limite alla repressione penale, nel senso che i fatti indicati dalla legge, nonostante il disvalore ad essi immanente, vengono puniti solamente qualora l'imprenditore che li ha commessi fallisca.

Accolta tale impostazione, l'interprete dovrebbe limitarsi a valutare l'esistenza di una delle condotte di bancarotta, senza porsi il problema se essa abbia influito a determinare dapprima lo stato di insolvenza e poi il fallimento.

La dottrina, sostenendo la natura di condizione obiettiva di punibilità, oscilla però tra la tipologia intrinseca e quella estrinseca.

Si è così proposto di considerare il fallimento quale condizione obiettiva, ma di tipo intrinseco (o impropria): nei delitti di bancarotta con la sentenza dichiarativa di fallimento la lesione dell'interesse passa dalla potenzialità all'attualità.

Pertanto, allineandosi a tale ordine di idee, condotte, che non siano neppure potenzialmente offensive degli interessi tutelati, non potrebbero assumere rilevanza penale una volta che sia intervenuto il fallimento. Per condizioni improprie devono intendersi quelle «consistenti in fattori portatori di un interesse solo formalmente estraneo al reato ma sostanzialmente del medesimo tipo o comunque prossimo rispetto a quello del reato stesso».

Alle medesime conclusioni giunge altra parte della dottrina, la quale, fedele alla concezione del fallimento come mera condizione obiettiva di punibilità, colloca, peraltro, i reati di bancarotta nella categoria dei delitti di pericolo concreto.

Conseguentemente, le singole condotte riconducibili alle fattispecie di bancarotta si rivelerebbero idonee ad integrare il reato fallimentare solamente a condizione che esse abbiano posto effettivamente in pericolo l'interesse dei creditori alla garanzia patrimoniale.

Dott.ssa Francesca Saveria Sofia