Le misure di comunità nell’ordinamento penitenziario minorile fra attese soddisfatte e aspettative deluse

05.07.2023

Il decreto legislativo 121/2018 – disciplinante l'esecuzione penale nei confronti dei minori - si compone di ventisei articoli suddividi in quattro capi: il primo contenente le disposizioni generali dell'esecuzione penitenziaria nei confronti dei minorenni (composto da un unico articolo), il secondo riservato all'esecuzione esterna (artt.2-8), il terzo sulla disciplina dell'esecuzione (artt.9-13), il quarto dedicato all'intervento educativo e all'organizzazione degli istituti per i minorenni (artt. 14-24), con due norme di chiusura destinate agli impegni finanziari per l'attuazione della riforma.

In particolare, il Capo secondo introduce e regolamenta le misure penali di comunità, quali misure alternative alla detenzione specificamente destinate ai condannati minorenni.

Il cambio del nomen iuris allude, da un lato, all'esigenza che il percorso di recupero del minorenne sia attuato attraverso il coinvolgimento diretto ed immediato della collettività, che deve essere inclusivo-attivo e non alienante - passivo; dall'altro lato, sottolinea la natura di queste stesse misure che costituiscono la modalità prioritaria di esecuzione della pena nei confronti dei minorenni in conformità ai principi del processo penale minorile (D.P.R. 448/1998), nonché a quelli sovranazionali incentrati sul rispetto dell'"extrema ratio" ovvero del superamento di una esecuzione penitenziaria carcerocentrica,[1]

L'art. 2 dell'ordinamento penitenziario minorile contiene l'elenco delle misure, disciplinate seguendo un ordine crescente di afflittività: dall'affidamento in prova al servizio sociale che è la più liberatoria, alla più restrittiva, la semilibertà, passando per la misura di nuovo conio, l'affidamento in prova con detenzione domiciliare, e penultima, la detenzione domiciliare.

L'adozione di tutte le misure di comunità, demandata al Tribunale di sorveglianza per i minorenni o dal Magistrato di sorveglianza nell'ipotesi di applicazione provvisoria, è subordinata alla verifica di idoneità del beneficio richiesto "a favorire l'evoluzione positiva della personalità, un proficuo percorso educativo e di recupero, sempre che non vi sia il pericolo che il condannato si sottragga all'esecuzione o commetta nuovi reati" (art.2, comma II,).

In questo scenario, un ruolo fondamentale è svolto dall'ufficio di servizio sociale per i minorenni cui è affidato il compito di proporre al Tribunale di sorveglianza il programma di intervento educativo, formulato proprio sulla base dell'osservazione del minore e acquisendo i "dati giudiziari e penitenziari, sanitari, psicologici e sociali, coordinandosi con i servizi socio-sanitari territoriali di residenza del minorenne e, per i detenuti, anche con il gruppo di osservazione e trattamento dell'istituto di appartenenza" (art.2, comma IX).

La scelta della singola misura di comunità deve, inoltre, avvenire seguendo il criterio del "minor sacrificio necessario" in base al quale il giudice competente è tenuto ad individuare quella più adeguata a realizzare un rapido inserimento sociale, limitandone la libertà personale nel modo meno gravoso possibile. Scopo primario dell'esecuzione non è tanto la neutralizzazione della pericolosità del condannato attraverso la compressione della libertà personale, ma soprattutto favorire l'educazione e promuovere il recupero del minorenne.[2]

Tra le previsioni comuni a tutte le misure assume preminente rilievo il principio di territorialità secondo cui la loro esecuzione deve avvenire, principalmente, "nel contesto di vita e nel rispetto delle positive relazioni socio- familiari del minore" ( art. 2, comma VII ) al fine di evitare lo sradicamento del condannato rispetto al proprio tessuto sociale, considerato un fattore determinante per il suo corretto inserimento nella collettività. [3]

Il principio in esame deve, però, trovare un necessario contemperamento in quelle situazioni in cui manchino o non siano adeguati i riferimenti socio - affettivi del condannato. Si pensi, ad esempio, alla situazione dei minori stranieri[4] o di quanti vivono il dramma della marginalità sociale, il cui contesto di vita deve essere costruito ex novo per mancanza di ogni tipo di sostegno sul territorio; ulteriore riferimento è ai minorenni che provengono da ambienti criminali così strutturati da far ritenere necessario un loro allontanamento, nella prospettiva di un utile reinserimento sociale.

Per di più, qualora sussistano ostacoli o pericoli per l'esecuzione della misura nel proprio contesto di appartenenza, quando cioè è carente un domicilio idoneo, la norma prevede la possibilità di applicare la misura con il collocamento dell'interessato in comunità pubbliche o del privato sociale (art.2, comma VIII).

Al fine di favorire il percorso rieducativo del condannato, le comunità possono essere organizzate, in deroga a quanto previsto dall'art.10 comma II lett. a), decreto legislativo n. 272/1989, anche in modo da ospitare solamente minorenni sottoposti a procedimento penale o in esecuzione di pena insieme a minori non autori di reato e collocati in comunità in seguito a procedimenti di natura civilistica.

La previsione si presta ad una duplice lettura: da un lato, essa si propone di evitare la stigmatizzazione e la precoce ghettizzazione dei minori interessati a vicende penali, dall'altro desta perplessità la coabitazione di soggetti imputati o solo indagati con persone condannate e persone estranee a problematiche di natura penale, portatori di esigenze molto diverse dal punto di vista trattamentale.

Ancora, l'art.3 del d.lgs. 121/2018 disciplina le modalità esecutive delle misure di comunità, stabilendo che, nel disporle, il tribunale di sorveglianza deve contestualmente prescrivere "lo svolgimento di attività di utilità sociale, anche a titolo gratuito, o di volontariato", compatibilmente con le esigenze di studio, di lavoro, di famiglia e di salute del minorenne e senza mai compromettere i percorsi educativi in atto.

In particolare, il comma III- per la prima volta in un testo normativo - definisce il ruolo del nucleo familiare del minorenne nell'ambito dell'esecuzione penale in ragione dell'esigenza di un concreto e responsabile coinvolgimento della famiglia nel progetto di intervento educativo.

Fra le diverse criticità ed incertezze circa la disciplina delle misure di comunità vi è "l'ampliamento dei criteri per l'accesso alle misure alternative alla detenzione" che avrebbe dovuto garantire un ricorso residuale alla pena detentiva: più si estende il limite di pena massimo da eseguire per poter fruire delle misure alternative (rectius delle misure di comunità) , più si ottempera al principio della residualità della pena.

In realtà poco è stato fatto per rispettare l'indicazione del legislatore delegante essendosi, difatti, ampliati in maniera scarsamente significativa i livelli di pena da eseguire per poter fruire delle misure penali di comunità.

Sarebbe stato auspicabile riprendere quanto proposto dalla Commissione ministeriale nell'art.4 comma II della Bozza di decreto legislativo che opta per un accesso alle misure extra moenia senza limiti quanto a tipologia di reato e all'entità della pena da scontare in ossequio alle finalità (ri)educativa della pena e con il principio di individualizzazione dell'intervento penale per i minorenni.

Inoltre, non poche perplessità desta l'affidamento in prova in casi particolari, non regolato dal decreto ma solo menzionato tra le misure di comunità. L'applicabilità ai minorenni di tale beneficio avviene, difatti, alle medesime condizioni stabilite per i condannati adulti, in forza del c.12 dell'art.2 del decreto in esame che estende alle misure previste per i minorenni la disciplina riservata alle omologhe misure per adulti "in quanto compatibili", tra le quali, l'art. 94 D.P.R. n. 309/1990 "in quanto compatibile".

Lacuna altrettanto significativa è data dalla mancata introduzione dell'"affidamento in prova terapeutico per patologie psichiatriche"[5] mediante il quale il legislatore avrebbe garantito l'introduzione nell'ordinamento penitenziario minorile di uno strumento di intervento terapeutico a tutela della salute del detenuto.

In sostanza, una speciale attenzione sarebbe stata riservata ai giovani detenuti che, soprattutto a causa problemi psichiatrici sviluppati durante la detenzione, appaiono particolarmente vulnerabili e bisognosi di un progetto di intervento educativo che contemperi anche le loro necessità terapeutiche.

Ad ultimo, appare doveroso richiamare l'art.5 dell'ordinamento penitenziario minorile che disciplina l'affidamento in prova con detenzione domiciliare; una misura penale di comunità con caratteristiche innovative, in grado di contemperare le esigenze educative con quelle di sicurezza, pur evitando il ricorso a misure più afflittive.

Rappresenta, difatti, una figura "mista" di misura alternativa contraddistinta dalla possibilità di strutturare l'affidamento in prova al servizio sociale integrandone l'esecuzione, in determinati giorni della settimana, con la detenzione domiciliare presso l'abitazione dell'affidato ovvero in un luogo pubblico o privato di cura, assistenza e accoglienza, o presso comunità.

Dott.ssa Francesca Saveria Sofia


[1] V. Relazione illustrativa al d.lgs 2 ottobre 2018, n.121

[2] Per un maggiore approfondimento si rimanda L. Caraceni, Una legge penitenziaria per i minorenni autonoma e speciale. Le aspettative tradite di un'attesa lunga quarant'anni.

[3]F.Fiorentin – F.Florio, La riforma dell'ordinamento penitenziario, Giuffrè, Milano 2019, p.15

[4]In attuazione di uno dei principi- base posti dalla Racc. (1988) 6, che impegna gli Stati all'adozione di misure positive per evitare qualunque discriminazione basata sullo status di straniero nell'accesso alle risorse utili ad avviare percorsi positivi di vita dopo la carcerazione.

[5] art.11 della Bozza di decreto legislativo della commissione per la riforma in tema di ordinamento penitenziario minorile e di modelli di giustizia riparativa in ambito esecutivo (D.M. 19.7.2017 – Pres. Dott. Francesco Cascini).