Le obbligazioni naturali
In materia civilistica, accanto alle obbligazioni civili, caratterizzate da una vincolatività nell'adempimento della prestazione e da una molteplicità di mezzi a loro tutela, si rinviene, all'art. 2034 c.c., la disciplina delle obbligazioni naturali.
Istituto caratterizzato dall'assenza di un obbligo giuridicamente rilevante e dalla presenza, invece, di una prestazione valevole sul piano morale o sociale.
Tale divergenza si radica sia nell'incoercibilità della prestazione naturale, sia nella presenza in capo al debitore di un sentire morale e sociale, aspetti che si trovano in completa antitesi con le prestazioni civili. L'istituto in esame ha risentito di una costante evoluzione storica.
Differenziazione presente già nel medioevo e poi nella Chiesta cattolica, dove trovava radicamento nella dicotomia tra il foro esterno, riguardante ciò che era vincolante sotto l'aspetto giuridico ed il foro interno, comprendente tutto ciò che - in base al sentire morale e sociale - assumeva rilevanza.
Nel Codice Pisanelli, così come in quello del 1942, l'istituto trova espressa regolamentazione. Qui vengono collocate immediatamente dopo la disciplina dell'indebito oggettivo ex art. 2033 c.c.; posizione che vuole rimarcare la lontananza tra la fattispecie civile e quella naturale. Le obbligazioni naturali concernono rapporti bilaterali che - trovando fondamento in costanza di un obbligo morale e sociale percepito dal debitore - sono connotati da una imperfezione e non si basano quindi su un vincolo giuridico. Le stesse, infatti, diventerebbero perfette solo nel momento della loro esecuzione. Il disposto normativo consente di delineare due tipologie di obbligazioni naturali, che sono tra loro connesse grazie ad un rapporto di genus - species. Infatti, il comma 1, statuendo che non è ammessa la ripetizione di quanto è stato spontaneamente prestato in esecuzione di doveri morali e sociali, connota un dovere generale mentre il comma 2, aprendo alla regolamentazione degli altri doveri per cui la legge non accorda azione ma esclude la ripetizione di ciò che è stato spontaneamente pagato, disciplina le singole specie.
Dunque, dalla sua lettura è possibile individuare, rispettivamente, le obbligazioni naturali c.d. tipiche e quelle c.d. atipiche. Le prime si caratterizzano per il fatto che sono già identificate dal legislatore ed esempi ne sono la disposizione fiduciaria ed il pagamento del debito prescritto.
Le seconde, invece, attribuiscono al giudice il compito di identificare quali siano rilevanti su un piano etico e morale. Elemento che emerge come caposaldo dell'istituto de quo è l'irripetibilità di quanto prestato, fatto salvo il caso in cui la prestazione sia stata eseguita da un incapace. Ruolo centrale quindi assume la soluti retentio, la quale mira alla stabilizzazione nella sfera giuridica dell'accipiens di quanto questi abbia ricevuto dal solvens, in mancanza di un obbligo giuridico.
Tra le questioni di maggior rilievo vi è la valutazione circa la natura giuridica dell'istituto.
In particolare, la dottrina, attraverso l'elaborazione di differenti teorie, si è divisa tra l'attribuzione di una natura negoziale - ove rileverebbe, oltre la volontà della prestazione posta in essere, anche l'effetto che questa produce - e chi, secondo una tesi prevalente, accoglie la tesi del mero atto giuridico, dove la rilevanza viene attribuita alla volontà del solvens mentre gli effetti della sua azione vengono già identificati dall'ordinamento giuridico. Tale riflessione trova la sua ratio nel fatto che il debitore adempiendo, porrebbe in essere un atto di mera autoregolamentazione, stante la considerazione secondo cui gli effetti giuridici del suo agire sarebbero già predeterminati.
L'effetto associato dal legislatore alle obbligazioni naturali, infatti, come sopra riportato, è la soluti retentio che rinviene una giusta causa solvendi nella libertà di colui che, spontaneamente, adempie e di colui che invece è legittimato a trattenere quanto prestato. Elemento che a tal proposito assume un ruolo peculiare è l'errore del debitore che non costituisce difetto idoneo a consentire la ripetizione di quanto dato. Quanto detto permette altresì - sulla base della clausola di salvezza, posta dal legislatore, la quale renderebbe valide ed irripetibili tutte le prestazioni, fatto salvo quelle compiute dal soggetto che fosse incapace - di verificare in che accezione la capacità del solvens debba essere considerata.
Taluni ritengono che questa debba essere intesa ai sensi dell'art. 120 c.c. e, quindi, si tratterebbe di capacità di intendere e di volere; altri, invece, la ricollegano alla capacità giuridica di cui all'art. 2 c.c.. Tuttavia, a fronte delle elaborazioni dottrinali e della conseguente prevalenza della natura dell'obbligazione de quo come mero atto giuridico, la connotazione da attribuire sarebbe rinvenibile nella capacità naturale del debitore. Ciò in quanto, trattandosi di un atto autoresponsabile, la capacità naturale meglio si adatterebbe alla volontà o meno di adempiere ad una prestazione giuridicamente non vincolante.
Analizzando il dettato normativo è altresì possibile riscontrare un'evoluzione terminologica che ha dato luogo alla sostituzione del termine "volontariamente" con "spontaneamente". Tale mutamento - che tratteggia una delle più importanti differenze con l'obbligazione civile ex artt. 1173 ss. c.c. - è dato dall'intento di precisare che la prestazione non è connotata dai caratteri della coercibilità e quindi non rappresenta un dovere giuridico ma, al contrario, il debitore vi adempie perché mosso da un sentire morale o sociale.
Discussa è anche la natura patrimoniale della prestazione a cui il debitore dà luogo. Parte della dottrina sostiene che il carattere della patrimonialità possa venire meno; altri, invece, affermano che, almeno in astratto, soprattutto in considerazione della collocazione dell'art. 2034 c.c. all'interno del titolo VII - "Del pagamento dell'indebito", debba essere presente. Ancora, tale riflessione si fonda sulla valutazione del fatto che ciò che non presenta valenza patrimoniale non potrebbe essere suscettibile di restituzione. Tuttavia, appare evidente come in concreto l'adempimento possa essere avulso da tale peculiarità.
Altra annosa questione attiene alla forma che l'obbligazione naturale deve osservare. In particolare, parte della dottrina, basandosi sul disposto dell'art. 1350 c.c. - secondo cui la forma scritta sarebbe necessaria per le dichiarazioni di volontà - ne escluderebbe l'estensione alle obbligazioni naturali, attenendo le stesse ad un livello meramente esecutivo, con la conseguenza che l'adempimento si perfezionerebbe al momento della datio rei. Altra elaborazione dottrinale e giurisprudenziale si mostrerebbe contraria a questa visione; ciò perché, in costanza di un accordo meramente verbale, si avrebbe una dazione immobiliare che sarebbe di fatto nulla. Tale tesi sarebbe avvalorata anche dal fatto che l'assenza di una forma scritta per i trasferimenti immobiliari costituirebbe violazione dell'art. 1350 c.c.. Viene, tuttavia, preferita la tesi prevalente che non richiederebbe il rigore della forma scritta.
Inoltre, pare doveroso sottolineare come l'irripetibilità di quanto prestato opera solo al ricorrere di due elementi, ossia l'adeguatezza e la proporzionalità. Elementi che, seppur non esplicitamente menzionati nel dettato normativo, rivestono un ruolo essenziale e laddove fossero assenti comporterebbero un'analisi circa i modi di un'eventuale restituzione. Infatti, quanto dato dal solvens deve corrispondere alle sue capacità, cosicché nell'ipotesi in cui vi fosse sproporzione sarebbe necessario procedere alla restituzione della res prestata. Soprattutto, si discute in merito alla disciplina da applicare in tal caso e se vi sia la necessità di procedere ad una restitutio in integrum, ove tutto ciò che è stato dato deve essere restituito al debitore, violando così la regola della soluti retentio o, come invece sostiene altra parte della dottrina, si debba procedere ad una restituzione parziale della cosa, in modo tale che la prestazione corrisponda alle effettive possibilità del solvens.
In conclusione, le obbligazioni naturali si caratterizzano - rispetto alle civili, connotate da un animus obligandi - per una giusta causa che trova origine nella volontà di eseguire una prestazione che, in caso di mancato adempimento, non comporterebbe alcuna sanzione per l'inadempiente. Inoltre, ciò che consente di tratteggiare un'ulteriore distinzione tra le due situazioni giuridiche è riscontrabile nella scarsità di tutele che fanno capo alle obbligazioni naturali; infatti qui il debitore potrà beneficiare della ripetibilità del suo assolvimento solo nel caso in cui fosse affetto da incapacità.
Dott.ssa Lucrezia Menotti