Legittimo il licenziamento per giusta causa del lavoratore che pone in atto molestie verso le colleghe

05.02.2024

In materia di rapporto di lavoro subordinato, costituisce una giusta causa di licenziamento il contegno di un lavoratore dipendente che "era stato posto in essere in violazione delle disposizioni aziendali e denotava "mancanza di rispetto del ricorrente nei confronti delle lavoratrici vittime delle sue attenzioni ripetute e sgradite, nonché un profondo disinteresse per il turbamento e disagio provocato a queste ultime dai continui inopportuni approcci e inviti[1]".

Nel dettaglio, il dipendente dell'istituto bancario aveva ricevuto dal datore di lavoro una diffida, successivamente una contestazione ed infine la lettera di licenziamento a causa di tali ripetute molestie mostrate ai danni delle due colleghe.

Il lavoratore aveva impugnato il licenziamento irrogatogli a seguito del procedimento disciplinare presentando ricorso al Tribunale competente, il quale aveva rigettato tale impugnativa.

La Corte d'appello aveva, respingendo il reclamo proposto dal dipendente, considerato proporzionata ai fatti la misura espulsiva "perchè, nonostante le iniziative precedenti adottate dal datore di lavoro per assicurare la tranquillità e sicurezza delle lavoratrici, il reclamante aveva "continuato intenzionalmente, disattendendo la diffida ricevuta, a porre in essere le condotte denunciate dalle due dipendenti", contegno che, anche alla luce della contestata recidiva (per fatti diversi, sanzionati con la sospensione dal servizio (…), aveva irrimediabilmente leso il rapporto fiduciario alla base del rapporto di lavoro[2]";

Nella ricostruzione della vicenda si rileva una sequenza procedimentale iniziata con una diffida e poi sviluppatasi in una contestazione formale "nella quale sono stati richiamati gli addebiti oggetto di diffida, oltre quelli successivi che ne evidenziavano l'inadempimento, perdurando la situazione di indesiderato approccio nei confronti delle colleghe" che ha poi definitivamente condotto all'adozione della sanzione espulsiva "per condotte inappropriate e generatrici di turbamento e paura ai danni di colleghe[3]".

Il ricorrente asseriva che il potere disciplinare esercitato dal datore di lavoro si fosse consumato con la diffida e che, ai fini della contestazione, valessero solo i fatti ad essa successivi. Tuttavia non appare condivisibile tale assunto: "perché la diffida si è manifestata quale esercizio del potere direttivo, ed è stato l'inadempimento alla stessa, espresso con i comportamenti successivi, ad attivare il procedimento disciplinare per tutti i fatti lesivi della dignità e sicurezza delle colleghe, nonché relativi all'uso improprio dei mezzi di comunicazione aziendali e al decoro e correttezza nelle relazioni tra colleghi nell'ambiente lavorativo[4]".

In particolare la condotta dimostrata dal lavoratore, integrando una lesione alla dignità delle colleghe colpite dalle inopportune ed insistenti attenzioni, vulnerava quel rapporto di fiducia imprescindibile e sotteso all'instaurazione, nonché alla conservazione di un proficuo rapporto di lavoro. Inoltre sull'attuazione del licenziamento in altra pronuncia la Suprema Corte "specificava che la giusta causa di licenziamento ex art. 2119 c.c. (Recesso per giusta causa), integra una clausola generale che l'interprete deve concretizzare tramite fattori esterni relativi alla coscienza generale e principi tacitamente richiamati dalla norma e, quindi, mediante specificazioni di natura giuridica, la cui disapplicazione è deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, mentre l'accertamento della concreta ricorrenza, nel fatto dedotto in giudizio, degli elementi integranti il parametro normativo costituisce un giudizio di fatto, demandato al giudice di merito ed incensurabile in cassazione se privo di errori logici o giuridici[5]".

Per tali ragioni la Cassazione rigettava il ricorso, configurandosi il licenziamento come misura proporzionata ed adeguata alla condotta manifestata dal dipendente in quanto lesiva dei diritti di libertà e dignità propri di ciascun lavoratore.

Dott.ssa Martina Buzzelli

[1] Cass. civ., Sez. lavoro, Ord., 15/11/2023, n. 31790.

[2] ibidem.

[3] Ibidem.

[4] Ibidem.

[5] Ibidem.