Ne bis in idem processuale e litispendenza

07.05.2025

A cura di Dott. Marco Misiti

Il concetto di ne bis in idem processuale è per lo più noto ai molti: a seguito di una sentenza avente ad oggetto un determinato fatto, un soggetto non può essere nuovamente processato per il medesimo fatto. Una delle applicazioni più peculiari attiene alla pendenza di due procedimenti che non solo attengono al medesimo fatto di reato in relazione alla stessa persona, ma sono pendenti dinanzi alla medesima autorità giudiziaria su iniziativa dello stesso ufficio di Pubblico ministero.

Il ne bis in idem processuale rappresenta un principio cardine del giusto processo, volto a garantire la certezza delle situazioni giuridiche in un'ottica di garanzia per il singolo individuo. Infatti, la finalità è quella di evitare una perdurante minaccia di avvio di procedimenti penali rimessa alla discrezionalità dell'autorità inquirente[1]. Non a caso il codice di procedura penale prevede degli istituti che possono essere azionati per rimuovere il giudicato, ma solamente nell'interesse del condannato, come avviene per la revisione di cui all'art. 630 c.p.p.

L'art. 649 c.p.p. stabilisce che «l'imputato prosciolto o condannato con sentenza o decreto penale divenuti irrevocabili non può essere di nuovo sottoposto a procedimento penale per il medesimo fatto, neppure se questo viene diversamente considerato per il titolo, per il grado o per le circostanze, salvo quanto disposto dagli articoli 69 comma 2 e 345». Le deroghe da ultimo richiamate riguardano, in particolare, la prima, l'errata dichiarazione della morte dell'imputato, e, la seconda, le ipotesi di sopravvenienza di una condizione di procedibilità, di mutamento dello stato di incapacità dell'imputato o di accertamento della sua errata dichiarazione.

La disposizione si premura anche di individuare il rimedio a tutela della persona giudicata qualora la stessa venga sottoposta a un nuovo procedimento penale. Infatti, nel procedimento successivamente avviato il giudice deve pronunciare sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere. È tuttavia possibile che, nonostante quanto previsto dall'art. 649 c.p.p., il secondo procedimento si concluda con un provvedimento definitivo. L'art. 669 c.p.p. contiene quindi una pluralità di soluzioni che, in un'ottica di tutela del reo, generalmente prevedono l'esecuzione della sentenza con cui è stata pronunciata la condanna meno grave e, il più delle volte, la prevalenza del proscioglimento sulla condanna.

Dalla piana lettura dell'art. 649 c.p.p. si evince come il presupposto[2] per l'applicazione della norma è l'esistenza di una sentenza penale o di un decreto penale che siano divenuti irrevocabili. Sono da considerarsi tali anche le sentenze emesse ad esito del rito dell'applicazione della pena su richiesta delle parti e del giudizio abbreviato, così come la sentenza predibattimentale di proscioglimento ex art. 469 c.p.p.[3]

Una efficacia limitatamente preclusiva è invece prodotta da quelle pronunce che, mediante l'utilizzo degli strumenti previsti nel codice di procedura penale, sono suscettibili di rimozione. Trattasi, in particolare, del provvedimento di archiviazione, potendo essere disposta la riapertura delle indagini ai sensi dell'art. 414 c.p.p., e della sentenza di non luogo a procedere, passibile di revoca ai sensi degli artt. 434 e ss. c.p.p. La seconda azione potrà pertanto essere considerata improcedibile qualora non si sia fatto ricorso alle modalità normativamente previste per rimuovere il precedente provvedimento.

Resta fuori dai casi finora esaminati la contestuale pendenza di più procedimenti penali. Trattasi del fenomeno della litispendenza, caratterizzato dalla presenza didue procedimenti penali nei quali ancora non si è giunti alla adozione di provvedimenti produttivi di effetti preclusivi ai sensi dell'art. 649 c.p.p.

Ci si deve chiedere, a questo punto, quale tutela sia riconosciuta al soggetto doppiamente indagato/imputato. Infatti, la lettura del dato testuale dell'art. 649 c.p.p. porterebbe a escludere tale situazione dal suo campo di applicazione, in quanto non si è in presenza di un provvedimento irrevocabile. Ciononostante, il caso di litispendenza relativa al medesimo fatto di reato condivide con l'art. 649 c.p.p. la medesima esigenza di garanzia dell'individuo.

La ratio del ne bis in idem processuale non è, infatti, quella di evitare che il soggetto possa subire più volte l'esecuzione della pena per il medesimo fatto, quanto piuttosto salvaguardare il soggetto da molteplici procedimenti penale. In quest'ottica, il processo rappresenta un pregiudizio per la persona, giustificabile nella misura in cui sia necessario ricostruire la verità processuale relativamente al fatto di reato, indipendentemente che l'esito sia favorevole o sfavorevole.

Si spiega allora il motivo per cui la giurisprudenza ha inteso come ricompreso nel divieto di bis in idem processuale anche il caso della litispendenza, ma esclusivamente nel caso in cui, oltre ai presupposti previsti dall'art. 649 c.p.p., ricorrano ulteriori condizioni.

È anzitutto necessario che in uno dei due procedimenti sia già stata esercitata l'azione penale. Inoltre, è necessario che entrambi i procedimenti siano pendenti dinanzi alla medesima sede giudiziaria e per iniziativa del medesimo ufficio del pubblico ministero. In queste ipotesi, in cui si è verificata una consumazione del potere di esercizio dell'azione penale del Pubblico Ministero, l'unica soluzione è quella di disporre l'archiviazione o, se l'azione è stata esercitata, di ritenere sussistente una causa di improcedibilità.

Restano invece fuori le ipotesi di litispendenza dinanzi a diverse sedi giudiziarie, idonee a creare una stasi processuale risolvibile mediante il conflitto positivo di competenza. Quest'ultimo, una volta risolto, consentirà di individuare il giudice competente dinanzi al quale proseguirà l'unico procedimento penale pendente.

Chiarito quindi che in queste ipotesi la soluzione non può che essere la improcedibilità del secondo procedimento, permane il dubbio se essa debba essere dichiarata applicando l'art. 649 c.p.p. o, diversamente, debba invece richiamarsi il principio generale del principio del ne bis in idem processuale in quanto casistica che si pone al di là della portata del dato testuale della richiamata disposizione. Secondo alcuni orientamenti giurisprudenziali, infatti, l'improcedibilità del secondo procedimento nella ipotesi di litispendenza troverebbe fondamento in un principio generale di preclusione-consumazione del potere di esercitare l'azione penale in capo al pubblico ministero[4]. Diversamente, altre pronunce hanno invece optato per l'applicazione diretta dell'art. 649 c.p.p.[5]


[1] In tal senso M. Ceresa-Gastaldo, Esecuzione, in Compendio di procedura penale, G. Conso, V. Grevi, M. Bargis (a cura di), 1017, secondo il quale «si tratta, insomma, di una garanzia ad personam che assicura la certezza del diritto in senso meramente soggettivo: nulla vieta, infatti, al giudice penale di riconsiderare l'idem factum, ad esempio, ai fini della prova di un diverso reato, on in relazione alla posizione di altri imputati». Si veda altresì Cass. Pen., Sez. I, 26 settembre 2022, n. 36316, secondo la quale «il citato divieto trova la propria ratio nella finalità di garantire che l'individuo non sia sottoposto ad arbitrarie iniziative dell'organo titolare dell'azione penale e, perciò, nello scopo di evitare che una persona sia perennemente sottoposta ad un processo penale o alla minaccia di futuri procedimenti per un medesimo fatto».

[2] Esula dalla presente trattazione l'esame degli ulteriori presupposti espressamente previsti dall'art. 649 c.p.p., ossia la medesimezza del fatto storico e della persona. Per quanto riguarda il primo elemento, è sufficiente in questa sede richiamare le Sez. U, 28 settembre 2005, n. 34655, ma soprattutto Corte cost., 21 luglio 2016, n. 200, con la quale si è precisato che il fatto deve essere considerato nella sua realtà storico-naturalistica e nella triade condotta-nesso causale-evento.

[3] Così M. Ceresa-Gastaldo, Esecuzione, cit., 1017.

[4] Così le già richiamate Sezioni unite.

[5] In tal senso Cass. Pen., Sez. V, 5 giugno 2020, n. 17252.