Il trattamento dei detenuti affetti da AIDS o grave immunodeficienza

17.01.2024

Il Legislatore si è occupato per la prima volta di regolamentare la materia dell'esecuzione della pena nei confronti dei detenuti affetti da HIV con la L. n. 222/93, normativa emergenziale, con la quale è stata introdotta nel nostro ordinamento un'ipotesi di rinvio obbligatorio della pena ex art. 146 c.p. nel caso in cui la stessa debba essere espiata da soggetto affetto da HIV, che si trovi in situazione di incompatibilità con lo stato di detenzione ex art. 286 bis c.p.p.

Con le pronunce nn. 438 e 439 del 1995 la Corte Costituzionale ha dichiarato costituzionalmente illegittimo questo sistema così rigido, ritenendo che ogni caso debba essere valutato singolarmente, stabilendo di volta in volta se nei confronti di un soggetto specifico la pena possa essere espiata senza arrecargli pregiudizio per la propria salute e per quella degli altri detenuti.

In ragione di quanto detto, è intervenuta la L. n. 231/99, che ha introdotto una disciplina dettagliata per i soggetti affetti da AIDS conclamata o da grave immunodeficienza o da altra malattia particolarmente grave.

In particolare, il sistema, che è stato strutturato dalla predetta normativa, affida al giudice la modulazione del trattamento sanzionatorio, in considerazione sia della salute del condannato sia delle esigenze di sicurezza sociale, strutturando una serie di istituti, volti alla contemperazione delle esigenze suddette, ossia:

L'art. 146 comma 1 n. 3 c.p. prevede, difatti, il differimento della pena obbligatorio (c.d. rinvio obbligatorio) nel caso il cui il condannato sia affetto da AIDS conclamata o da grave immunodeficienza ex art. 286 bis comma 2 c.p.p. o da altra malattia particolarmente grave, per effetto della quale le sue condizioni di salute risultino incompatibili con lo stato di detenzione, ossia, detto in altri termini, quando la persona si trovi nello stadio terminale della malattia.

La Consulta, con la sentenza n. 264/09, ha affermato che la disposizione di cui sopra "non individua […] una particolare categoria di persone rispetto alle quali l'incompatibilità con lo stato di detenzione è presunta ex lege, ma affida al giudice il compito di verificare in concreto se, ai fini dell'esecuzione della pena, le effettive condizioni di salute del condannato, per lo stadio estremo al quale è ormai pervenuta la malattia, siano o meno compatibili con lo stato detentivo".

Si ricordi, peraltro, che l'anzidetto istituto del rinvio obbligatorio si può applicare sia alla pena carceraria che alle sanzioni non detentive, nonché alle misure di sicurezza personali, essendo competente a disporre il rinvio il Tribunale di Sorveglianza ai sensi dell'art. 684 c.p.p.

L'art. 147 comma 1 n. 2 c.p., invece, prescrive il c.d. rinvio facoltativo dell'esecuzione della pena nel caso in cui il condannato risulti affetto da grave infermità fisica, ossia quel soggetto che è affetto da una malattia tale da "porre in pericolo la vita o da provocare rilevanti conseguenze dannose e, comunque, da esigere un trattamento che non si possa facilmente attuare nello stato di detenzione, dovendosi in proposito operare un bilanciamento tra l'interesse del condannato ad essere adeguatamente curato e le esigenze di sicurezza della collettività" (cfr. Cass. pen. n. 477/20).

Il rinvio della pena si applica anche nel caso in cui il soggetto detenuto sia affetto sia da patologia fisica che da patologia psichica, tali da impedirgli di espiare la pena in carcere.

Per valutare se il condannato debba essere sottoposto al rinvio della pena anzidetto, il giudice deve compiere un doppio giudizio, prima in astratto, tenendo conto della tipologia di malattia che affligge il detenuto e della astratta possibilità di cura, poi in concreto, tenendo in considerazione le modalità di somministrazione delle medicine, necessarie per curarlo, da valutarsi in relazione all'istituto penitenziario in cui il soggetto è detenuto, nonché all'incidenza dell'ambiente in cui egli si trova sul quadro clinico dello stesso (cfr. Cass. pen. n. 50998/18).

Si consideri, di poi, che nel caso di documentazione clinica attestante un grave stato di salute del detenuto, incompatibile con la vita carceraria, il giudice, se ritiene di dover rigettare la richiesta di rinvio della pena, deve incaricare un perito, al fine di valutare se la salute del detenuto sia o meno compatibile con il regime detentivo (cfr. Cass. pen. n. 37062/18).

Al fine di contemperare le esigenze di tutela della salute del detenuto e quelle di sicurezza collettiva, l'art. 47 ter comma 1 ter o.p., introducendo una c.d. "terza via", stabilisce che il Tribunale di Sorveglianza possa applicare in via provvisoria la detenzione domiciliare anche nel caso in cui la pena superi il limite di cui al comma 1, stabilendo un termine di durata, comunque prorogabile, permettendo alla pena di continuare a fare il proprio corso, seppure in forma diversa (quella – appunto – della detenzione domiciliare).

Il giudice, prima di poter revocare la misura appena descritta, deve "verificare – nell'ambito di una valutazione comparativa […] tra le esigenze di tutela della collettività e quelle del rispetto del principio della umanità della pena - se la situazione attuale di salute del soggetto sia compatibile con il ripristino della detenzione in carcere" (cfr. Cass. pen. n. 55049/17).

Si ricordi, inoltre, che l'istanza di applicazione della detenzione domiciliare, se la pena ha già avuto inizio, è rivolta al Tribunale di Sorveglianza competente in relazione al luogo di esecuzione della pena. Nel caso, invece, di grave pregiudizio per la protrazione dello stato detentivo nei confronti del soggetto detenuto, ai sensi dell'art. 47 ter comma 1 quater o.p., l'istanza può essere presentata al Magistrato di Sorveglianza, il quale può disporre la provvisoria applicazione della misura.

L'art. 47 quater o.p. indica quali sono le misure alternative alla detenzione, da applicarsi nei confronti dei soggetti affetti da AIDS conclamata o da grave immunodeficienza, ossia l'affidamento in prova al servizio sociale e la detenzione domiciliare.

Le richieste di applicazione di queste misure devono essere presentate al Tribunale di Sorveglianza direttamente dall'interessato o dal suo difensore, con allegata la certificazione del servizio sanitario penitenziario, attestante la sussistenza delle condizioni di salute, necessarie per accedere a tali misure, nonché la fattibilità del programma di cura e assistenza, in base alla possibilità di recupero del detenuto e alla volontà dello stesso di sottoporsi al trattamento stabilito. Tale istituto, proprio come nel caso dell'art. 47 ter o.p., è applicabile in deroga ai limiti di pena generalmente previsti.

Il Tribunale di Sorveglianza, anche in tal caso, ha il dovere di "operare un bilanciamento tra il diritto alla salute del detenuto e la tutela della collettività, posto che la previsione della norma appare costruita su una presunzione di relativa non pericolosità sociale determinata dalle particolari condizioni di salute e su una parimenti relativa incompatibilità con il regime detentivo. In tal senso, il Tribunale deve accertare in concreto se la malattia da cui è affetto il detenuto sia tanto grave da comportare da un lato l'incompatibilità con il regime carcerario, e dall'altro, da diminuirne la pericolosità sociale" (Trib. Sorv. Milano, ord. 07.05.02).

Per questa ragione, la misura può essere negata per la pericolosità sociale del condannato, dedotta da precedenti penali o dalla reiterazione di condotte criminose, anche oltre i casi di revoca della misura (cfr. Cass. pen. n. 7366/06).

Ai sensi dell'art. 47 quater comma 6 o.p., la misura appena descritta può essere revocata se il soggetto risulti imputato o sia stato sottoposto a misura cautelare per uno dei reati di cui all'art. 380 c.p.p., in relazione a fatti commessi in un momento successivo a quello in cui è stato concesso il beneficio di cui si discute.

Nei casi anzidetti, dovendo contemperare le esigenze di tutela della salute del detenuto e quelle di sicurezza collettiva, divenendo, tuttavia, preponderanti queste ultime (esigenze di sicurezza collettiva), è possibile riattivare la pena carceraria, a patto che l'istituto penitenziario sia dotato di un apposito reparto, attrezzato per la cura e l'assistenza del detenuto ex art. 47 quater comma 7 o.p.

In conclusione, figura fondamentale nell'applicazione delle misure dettagliate nel presente scritto è il giudice, il quale ha il compito di contemperare esigenze fra loro differenti – quella della salute del detenuto e quella della sicurezza sociale -, nel rispetto della normativa costituzionale ed europea.

Avv. Laura Giusti