Il sottile confine tra condotte vessatorie a danno dei colleghi di lavoro e mobbing: risarcibilità del danno morale soggettivo
Tribunale di Bari, Sezione Lavoro, Sentenza n. 97 del 17 gennaio 2023
Tribunale di Bari, Sezione Lavoro, Sentenza n. 97 del 17 gennaio 2023,"la perpetrazione di condotte illegittime da parte dei colleghi ai danni di un dipendente impone al datore di lavoro che sia venuto a conoscenza di siffatte condotte, in ossequio all'obbligo di tutelare l'integrità fisica e la personalità morale del prestatore di lavoro ai sensi dell'art. 2087 c.c. di rimuovere le conseguenze dei medesimi fatti lesivi o quantomeno di attivarsi per impedire che analoghe condotte si ripetano nel futuro."
Il caso in esame trae origine dal ricorso presentato da un dipendente di una centrale termica il quale, a fronte di ripetute condotte vessatorie subite dai colleghi, si rivolgeva al giudice per ottenere la condanna del datore di lavoro al risarcimento dei danni patiti. Quest'ultimo, infatti, nonostante le segnalazioni, non era intervenuto per interrompere la sequenza di tali maltrattamenti, se non con l'irrogazione di una sanzione disciplinare in danno di tutti i dipendenti, compreso il ricorrente.
Il dipendente si rivolgeva pertanto al giudice di prime cure per ottenere la condanna del datore di lavoro al risarcimento dei danni patiti (biologico e morale/esistenziale), oltre al pagamento di una somma a titolo invalidità temporanea per i giorni di malattia, il rimborso delle spese mediche e la rifusione di altre ore di lavoro non retribuite a vario titolo.
L'oggetto del giudizio consisteva nella valutazione, da parte del giudice, di una serie di contegni posti in essere da parte di alcuni colleghi del lavoratore, che consistevano in commenti denigratori volti a metterne in evidenza la scarsa competenza tecnica.
Le condotte offensive e di scherno interessavano, altresì, le inettitudini personali e le condizioni igieniche del medesimo. Inoltre si erano verificati anche episodi "fisici" (come quello di lasciare il collega chiuso fuori dalla porta d'ingresso protraendo tale atteggiamento per un lungo periodo di tempo). Poiché i dipendenti utilizzavano il registro delle consegne per annotare tali considerazioni ed il medesimo era perfettamente consultabile dai superiori gerarchici, il ricorrente conveniva in giudizio l' azienda, lamentando l'inerzia di essa a fronte di tali comportamenti lesivi della propria dignità e personalità morale.
La problematica sottesa al caso di specie riguarda la considerazione, operata dal giudice di prime cure, che le condotte descritte non integrassero una vera e propria ipotesi di mobbing ma che si collocassero su un piano "inferiore" dal punto di vista della meritevolezza di tutela e pertanto si richiedesse una diversa qualificazione in ordine alle medesime.
La linea di discrimine individuata nel Mobbing risiede nella volontà che lo sorregge (diretta alla persecuzione o all'emarginazione del dipendente), e la conseguente lesione, attuata sul piano professionale o sessuale o morale o psicologico o fisico.
Invero, esaminando il caso di specie "non si ravvisavano indici della sussistenza di un disegno preordinato alla prevaricazione del lavoratore ricorrente".
Infatti il giudice di merito, in tale pronuncia, argomenta che, ai fini della configurabilità del mobbing lavorativo, devono ricorrere molteplici elementi: "una serie di comportamenti di carattere persecutorio che, con intento vessatorio siano stati posti in essere ai danni della vittima in modo reiterato e prolungato nel tempo, da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o da altri dipendenti sottoposti al potere direttivo dei primi; l'evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente; il nesso eziologico tra le condotte descritte ed il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psico-fisica e/o nella propria dignità; l'elemento soggettivo qualificato dall'intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi".
La pronuncia in oggetto assume rilevanza nel solco di quell'orientamento giurisprudenziale che censura l'indifferenza del datore di lavoro difronte a condotte vessatorie poste in essere dai suoi sottoposti in danno dei colleghi: infatti la responsabilità del datore (ove il comportamento sia direttamente riferibile ad altri dipendenti aziendali) può discendere, attraverso l'art. 2049 c.c., da colpevole inerzia nella rimozione del fatto lesivo.
Nel delineare il quadro delle responsabilità che incombono sul datore di lavoro, non solo per i fatti illeciti che discendono dalle proprie condotte ma anche per quelli che si verificano, per opera dei suoi dipendenti, nell'ambiente lavorativo in cui esercita il potere di direzione e coordinamento, occorre fare riferimento al più ampio concetto di "personalità morale" enunciato dall'articolo 2087 cc. Tale articolo 2087 c.c. attribuisce una posizione di garanzia al datore di lavoro: "l'imprenditore è tenuto ad adottare nell'esercizio dell'impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro".
Proprio in virtù della posizione ricoperta dal datore di lavoro, in relazione alle vicende rappresentate e che hanno leso la sfera emotiva e morale del ricorrente, il Tribunale ha riconosciuto a quest'ultimo il diritto di ottenere il risarcimento del danno morale soggettivo. Infatti lo stesso si era sottoposto a trattamento psicofarmacologico dovuto al disturbo depressivo e d'ansia che gli era derivato a seguito delle condotte perpetrate dai suoi colleghi e, conseguentemente, l'azienda veniva condannata al risarcimento del danno non patrimoniale al lavoratore, liquidato in complessivi euro 21.665,00, oltre al rimborso delle spese mediche e alla rifusione delle ore di lavoro non retribuite a vario titolo.
Si può pertanto concludere che la tutela dell'integrità fisica e della personalità morale dei prestatori di lavoro deve costituire il baluardo per ciascun imprenditore nell'esercizio della propria impresa, a garanzia dei diritti inviolabili che la repubblica riconosce all'uomo "sia come singolo che nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità" ed a presidio dell'adempimento dei "doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale" di cui all'articolo 2 della Costituzione.