L’ interesse dell’ente sussiste anche in caso di isolata trasgressione delle norme in materia di sicurezza sul lavoro
Cass. pen., Sez. IV, 04 luglio 2024, n. 26293
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Con sentenza n.26293 del 4 luglio del 2024 la Suprema Corte dichiarava l'inammissibilità del ricorso avverso una sentenza d'appello di conferma della condanna irrogata in primo grado ad una società per l'illecito amministrativo di cui all'art.25 septies comma 3 d.lgs. 231/2001, in relazione al reato di cui all'art.590 c.p., aggravato dalla violazione della normativa antinfortunistica ai danni di un lavoratore dipendente dell'Ente.
Gli Ermellini, non accogliendo quanto dedotto dalla difesa nei motivi di gravame, richiamano nella parte motiva della pronuncia di legittimità diversi orientamenti giurisprudenziali proprio in materia di responsabilità da reato degli Enti che, introdotta con D.lgs. n.231/2001, ha scardinato il dogma «societas delinquere non potest».
Anzitutto, la Corte di cassazione riafferma il proprio consolidato orientamento sui criteri di imputazione oggettiva ritenuti tra loro alternativi e concorrenti, diversamente da quanto sostenuto da una dottrina minoritaria che considera la locuzione normativa "interesse o vantaggio dell'ente" come un'endiadi che esprime un significato unitario attraverso l'utilizzo di due sinonimi.
L'interesse esprime una valutazione teleologica del reato, indagabile ex ante, cioè al momento della commissione del fatto e secondo un metro di giudizio marcatamente soggettivo; il vantaggio ha, invece, una connotazione essenzialmente oggettiva, come tale valutabile ex post, sulla base degli effetti concretamente derivati dalla realizzazione dell'illecito.
In base alla casistica offerta alla giurisprudenza di legittimità, il significato dei due concetti può essere ravvisato nel risparmio di risorse economiche conseguente alla mancata predisposizione dei procedimenti e dei presidi di sicurezza, nell'incremento economico conseguente all'incremento della produttività non ostacolata dal rispetto della normativa prevenzionale, nonché nel risparmio sui costi di consulenza, sugli interventi strumentali e sulle attività di formazione e informazione del personale.
Successivamente la Suprema Corte supera le incertezze legate all'asserita impossibilità di conciliare "il finalismo della condotta" richiesto dalla nozione di interesse con la "non volontarietà" propria del paradigma colposo, allineandosi alla posizione già assunta dalla giurisprudenza di legittimità che "ancora" i presupposti dell'interesse e del vantaggio alla condotta – e cioè all'inosservanza delle regole cautelari – e non all'esito antigiuridico.
La soluzione prospettata, difatti, non determina alcuna difficoltà di carattere logico, essendo ben possibile che l'agente violi consapevolmente la cautela, o addirittura preveda l'evento che ne può derivare, pur senza volerlo, per rispondere a istanze funzionali a strategie dell'ente.
Nella sentenza esaminata, la S.C. disattende l'interpretazione della parte ricorrente che fa leva sul requisito della sistematicità della violazione quale elemento della fattispecie tipica dell'illecito dell'ente.
La Corte, difatti, evidenzia come l'art.25 septies d.lgs.231/2001 «non richiede la natura sistematica delle violazioni alla normativa antinfortunistica per la configurabilità della responsabilità dell'ente derivante dai reati colposi ivi contemplati».
Rileva, inoltre, la S.C. che se il criterio di imputazione in esame ha lo scopo di assicurare che l'ente non risponda in virtù di un mero rapporto di immedesimazione organica, assicurando che la persona fisica abbia agito nel suo interesse e non solo approfittando della posizione in esso ricoperta, sarebbe infatti «eccentrico rispetto allo spirito della legge ritenere irrilevanti tutte quelle condotte, pur sorrette dalla intenzionalità, ma, in quanto episodiche e occasionali, non espressive di una politica aziendale di sistematica violazione delle regole cautelari».
Il carattere della sistematicità potrebbe, al più, rilevare sul piano prettamente probatorio quale possibile indizio dell'esistenza dell'elemento finalistico della condotta dell'agente.
Tale pronuncia conferma, dunque, l'orientamento da tempo adottato dalla giurisprudenza secondo cui l'interesse può sussistere anche in relazione a una trasgressione isolata, allorché altre evidenze fattuali dimostrino un collegamento finalistico tra la violazione e l'interesse dell'ente.