Non consumazione del matrimonio, revoca dell’assegno divorzile e coabitazione.

12.08.2023

Cass. civ. I Sez 7 febbraio 2023, n. 3645 

Nell'ordinamento canonico vige il principio in virtù del quale, data la natura sacramentale del matrimonio fra battezzati, solo al giudice ecclesiastico compete la giurisdizione su tale vincolo e il potere di dichiararne la nullità. 

L' Art. 34 del Concordato del 1929[1] aveva introdotto una riserva di giurisdizione ecclesiastica sul matrimonio, serbando ai tribunali ecclesiastici la competenza sulle cause di nullità del matrimonio e la dispensa dal matrimonio rato e non consumato, mentre allo Stato spettava unicamente la competenza sugli effetti civili (trascrizione e separazione, stante che non c'era ancora il divorzio).

Tali sentenze ecclesiastiche erano sempre efficaci automaticamente nell'ordinamento civile attraverso uno speciale procedimento, per il tramite della Corte d'Appello competente per territorio, emanava ordinanza, in camera di consiglio e le rendeva esecutive. 

Nel 1982 la situazione mutò, dopo che il giudice di legittimità introdusse per le sentenze ecclesiastiche di nullità del matrimonio concordatario, la necessità di delibare tali pronunce che provenivano comunque da un ordinamento diverso da quello statale, estraneo... e a partire da tale momento, le sentenze ecclesiastiche di nullità matrimoniale dovevano passare al vaglio della Corte di Appello e non poterono acquistare più efficacia civile stante che lo stesso procedimento di delibazione poteva concludersi con un rigetto della domanda (che deve essere presentata da entrambe le parti, ma anche da una di esse).

Con l'Accordo di Villa Madama, poi, nel 1984, si ridefinì nuovamente tale aspetto: l'Art 8 dell'accordo prevede che le sentenze ecclesiastiche pro nullitate possono essere "dichiarate efficaci dalla repubblica con sentenza della Corte d'Appello competente", all'esito di una serie di accertamenti.

Negli anni, numerose sono state le pronunce della Corte Costituzionale e tra le tante vi è la N. 421 del 1993 dove la stessa ha ripartito la competenza tra il giudice ecclesiastico e quello civile, chiarendo come non vi è una riserva assoluta ma relativa.

Orbene, bisogna tracciare la differenza tra la delibazione intervenuta dopo la pronuncia di divorzio e quella nelle more del giudizio di divorzio:

  • la delibazione intervenuta dopo la pronuncia della sentenza di divorzio, non esclude la dichiarazione di nullità matrimoniale, perché tra le due pronuncia vi è una sostanziale differenza di oggetto… mentre con il divorzio si chiede lo scioglimento del matrimonio, con l'altra si chiede la nullità del medesimo. A tal proposito vi è un'ordinanza della Corte di Cassazione n. 1882 del 2019 per la quale la moglie non perde l'assegno di mantenimento se dopo la sentenza di divorzio interviene la nullità ecclesiastica del matrimonio;
  • la delibazione "arrivata" nelle more del giudizio di divorzio va a travolgere il matrimonio in sé e dunque far cessare lo stesso procedimento civile.

Il base al diritto canonico, "il matrimonio valido tra battezzati si dice rato se non è stato consumato; rato e consumato se i coniugi hanno compiuto tra di loro, in modo umano l'atto idoneo a procreare e a generare prole, al quale il matrimonio è ordinato per sua natura, e per il quale i coniugi divengono una sola carne".

Il matrimonio consumato, stante a quanto dice la norma canonica, non può essere sciolto da nessuna potestà umana e per nessuna causa, eccetto la morte, mentre quello non consumato può essere sciolto per giusta causa dal Papa su richiesta di entrambe le parti, ma anche di una sola.

Ora, dopo aver fatto un breve excursus sul rapporto tra la giurisdizione ecclesiastica e quella civile, devo dire che gli Ermellini hanno, da tempo, ribadito che le cause di scioglimento, o di cessazione degli effetti civili, del matrimonio, previste dalla L. 1 dicembre 1970, n 898, art. 3, operano in presenza del presupposto che, per effetto di esse, la comunione spirituale e materiale fra i coniugi non possa essere mantenuta o ricostituita e che l'accertamento che in tal senso compie il giudice costituisce un apprezzamento di merito insindacabile in Cassazione, se correttamente e adeguatamente motivato[2].

[L'ordinanza in esame si basa su un ricorso promosso dinanzi la Corte d'Appello di Bologna che aveva pronunciato la cessazione degli effetti civili di un matrimonio celebrato, per mancata consumazione, ai sensi dell'art. 3 lett.f) l.898 del 1970, con fissazione di un obbligo di versare all'ex coniuge, a titolo di assegno divorzile, l'importo mensile di Euro 750,00.

In particolare, i giudici d'appello, confermando la cessazione degli effetti civili del matrimonio per inconsumazione, sulla base delle complessive risultanze istruttorie emergenti dalle testimonianze acquisite nel corso del procedimento di primo grado (in ordine alla totale assenza di rapporti sessuali durante il fidanzamento, dal 1994, e nei primi due anni di matrimonio), con conseguente superamento della presunzione di consumazione del matrimonio correlata alla sua durata (dieci anni), hanno respinto la domanda della parte ricorrente in punto di diritto ad assegno divorzile, dando rilievo allo stabile legame, con carattere di continuità, che la stessa parte aveva intrapreso, con altro uomo, indice di un progetto comune di vita, pur in assenza di convivenza di fatto tra i medesimi.]

A questo proposito, la Corte[3] ha affermato che "l'instaurazione da parte del coniuge divorziato di una nuova famiglia, ancorché di fatto, rescindendo ogni connessione con il tenore ed il modello di vita caratterizzanti la pregressa fase di convivenza matrimoniale, fa venire definitivamente meno ogni presupposto per la riconoscibilità dell'assegno divorzile a carico dell'altro coniuge, sicché il relativo diritto non entra in stato di quiescenza, ma resta definitivamente escluso. Infatti, la formazione di una famiglia di fatto, costituzionalmente tutelata ai sensi della Cost. art. 2 come formazione sociale stabile e duratura in cui si svolge la personalità dell'individuo, è espressione di una scelta esistenziale, libera e consapevole, che si caratterizza per l'assunzione piena del rischio di una cessazione del rapporto e, quindi, esclude ogni residua solidarietà post-matrimoniale con l'altro coniuge, il quale non può che confidare nell'esonero definitivo da ogni obbligo". In tale pronuncia, quindi la Corte ha ritenuto che, in presenza di una convivenza che assuma "i connotati di stabilità e continuità", in cui i conviventi "elaborino un progetto ed un modello di vita in comune (analogo a quello che di regola caratterizza la famiglia fondata sul matrimonio)", la mera convivenza si trasforma in una vera e propria famiglia di fatto e quindi si rescinde ogni presupposto per la riconoscibilità di un assegno divorzile, fondato sulla conservazione del tenore di vita goduto nella precedente vita matrimoniale, pur ribadendosi che non vi è né identità, né analogia tra il nuovo matrimonio del coniuge divorziato, che fa automaticamente cessare il suo diritto all'assegno, ex art5 co. 10 della L.898 del 1970, e la fattispecie descritta, che necessita comunque di un accertamento e di una pronuncia giurisdizionale.

Anche in una recente pronuncia (la n. 32918 del 2022) le Sezioni Unite, investite sulla questione della necessarietà o meno della cessazione del diritto all'assegno divorzile per effetto della convivenza stabile dell'ex coniuge con un terzo, hanno affermato che "L'instaurazione da parte dell'ex coniuge di una stabile convivenza di fatto, giudizialmente accertata, incide sul diritto al riconoscimento di un assegno di divorzio o alla sua revisione, nonché sulla quantificazione del suo ammontare, in virtù del progetto di vita intrapreso con il terzo e dei reciproci doveri di assistenza morale e materiale che ne derivano, ma non determina, necessariamente, la perdita automatica ed integrale del diritto all'assegno, in relazione alla sua componente compensativa" e che "in tema di assegno divorzile in favore dell'ex coniuge, qualora sia instaurata una stabile convivenza di fatto tra un terzo e l'ex coniuge economicamente più debole questi, se privo anche nell'attualità di mezzi adeguati e impossibilitato a procurarseli per motivi oggettivi, conserva il diritto al riconoscimento dell'assegno di divorzio, in funzione esclusivamente compensativa; a tal fine il richiedente dovrà fornire la prova del contributo offerto alla comunione familiare, della eventuale rinuncia concordata ad occasioni lavorative e di crescita professionale in costanza di matrimonio, dell'apporto fornito alla realizzazione del patrimonio familiare e personale dell'ex coniuge. L'assegno, su accordo delle parti, può anche essere temporaneo".

Insomma!!! Indubbiamente si può affermare che, in presenza di una coabitazione stabile di una coppia, possa presumersi l'esistenza di una effettiva convivenza senza bisogno di ulteriori prove.

Tuttavia, c'è da evidenziare che nella fattispecie in esame, si discute, sulle condizioni economiche già stabilite nella fase di crisi coniugale sfociata nel divorzio, dell'instaurazione, da parte dell'ex coniuge beneficiario dell'assegno divorzile, di una convivenza stabile, frutto di una scelta, libera e responsabile, in ordine alla formazione di un nuovo progetto di vita con il nuovo compagno o la nuova compagna, con impegno reciproco di contribuzione e di assistenza morale e materiale e come chiarito dalla precedente citata pronuncia[4], la coabitazione assume una valenza indiziaria, ai fini della prova dell'esistenza di un rapporto di convivenza di fatto, elemento indiziario "da valutarsi in ogni caso non atomisticamente... ma nel contesto e alle circostanze in cui si inserisce", mentre, viceversa, "l'assenza della coabitazione non e` di per se´ decisivo".

Dott.ssa Veronica Riggi


[1] Patti Lateranensi stipulati tra lo Stato italiano e la Chiesa Cattolica

[2] Cass. 4178 del 1975

[3] Cass. 6855 del 2015; conf. Cass.2466 del 2016

[4] Cass n. 14151 del 2022