Capacità d'intendere e volere dell'omicida alla guida in stato di ebbrezza alcolica
La presente analisi muove da un apparente contrasto che emerge dal raffronto degli istituti giuridici dell'imputabilità (ex art. 85 c.p.) da un lato, e dell'ubriachezza (ex art. 92 c.p.) dall'altro, in tensione con il principio di colpevolezza (ex art. 27, commi primo e terzo Cost.).
Gli assunti di partenza sono essenzialmente tre: anzitutto, ai sensi dell'art. 85 c.p., è imputabile colui che è capace di intendere e di volere.
In secondo luogo, ai sensi dell'art. 92 c.p., l'ubriachezza -non derivata da causo fortuito o da forza maggiore- non vale ad escludere né diminuire l'imputabilità.
Da ultimo, la colpevolezza, specie a fronte dell'intervento avvenuto negli anni Ottanta ad opera della Corte costituzionale, impone un necessario coefficiente minimo di rimproverabilità in capo al reo per aver commesso un fatto antigiuridico. Presuppone la capacità di costui di determinarsi liberamente nelle proprie scelte, dunque, la capacità di comprendere il significato del proprio comportamento nonché il controllo dei propri impulsi ad agire.
Diversamente, infatti, la pena non si caratterizzerebbe più per la funzione rieducativa, divenendo anzi de-socializzante.
Ciò premesso, ictu oculi i primi due assunti stridono fra loro, rappresentando l'ipotesi di un soggetto in stato di ebbrezza alcolica (mutatis mutandis, di alterazione psico-fisica dovuta all'assunzione di sostanze stupefacenti/psicotrope) normalmente imputabile.
La prevalente dottrina - seppur senza riscontrare seguito in giurisprudenza – ha tentato interventi interpretativi di rimodulazione di detta ipotesi per renderla conforme al principio di colpevolezza: nello specifico, ha richiesto quale condizione necessaria per ritenere il soggetto rimproverabile che, nel momento in cui costui si sottopone colposamente o dolosamente in stato di alterazione, il reato quantomeno rappresenti un rischio accertato nella forma del dolo eventuale ovvero costituisca un evento prevedibile in concreto.
In caso contrario, la dottrina ha osservato come l'art. 92 c.p. si traduca in una fictio di imputabilità che si traduce nell'ordinamento giuridico in un'ipotesi di responsabilità oggettiva: colui che si è ubriacato, dolosamente o colposamente, risponde penalmente del reato che va a commettere. Con la precisazione che, l'opinione maggioritaria, anche in giurisprudenza, imputa in genere a costui il medesimo coefficiente di colpevolezza che accompagna la realizzazione del fatto.
Appurato che l'assetto sopra delineato stride con il principio di colpevolezza, preme del resto evidenziare come, pur con forzature di sistema, sia ragionevolmente necessario affinché possa ritenersi garantita la funzione general-preventiva della pena. Del resto, la complessità del sistema penalistico impone un'armonizzazione tre regole codicistiche, quasi matematiche, ed ogni supremo principio costituzionale che sorregge l'ordinamento giuridico.
Infatti, il tema così rappresentato sul piano sistematico, presenta risvolti pratici significativi.
A tal proposito, preme un collegamento con la disciplina dell'omicidio stradale aggravato dalla guida in stato di ebbrezza, rubricato all'art. 589 bis c.p., come introdotto dalla Legge n. 41 del 23 marzo 2016.
Detto reato ripropone la sopradescritta fictio di imputabilità di cui all'art. 92 c.p., dal momento che viene ascritto al soggetto agente al ricorrere del superamento di soglie quantitative - contemplate dall'art. 186 del Codice della strada - ciascuna delle quali corrispondente ad uno stato medio o grave di ubriachezza, con conseguente differenziazione di pena.
Determinante è stato il contributo offerto dalla tossicologia forense che, recidendo ogni conflitto interpretativo di disciplina, ha evidenziato come il superamento delle soglie ivi previste non necessariamente implichi la sussistenza dello stato di alterazione alcolica in capo all'agente.
È stata infatti tracciata una chiara linea di demarcazione concettuale fra lo stato di ebbrezza alcolica, da un lato, e l'ubriachezza, dall'altro.
Solamente quest'ultima determinerebbe, invero, l'alterazione dei processi cognitivi del reo, tale da incidere sulla capacità di intendere e di volere. Tuttavia, affinché sussista è tecnicamente richiesta l'assunzione di una quantità di alcol superiore a 2,5 grammi per litro (salvo differente limite, adeguato alle concrete caratteristiche fisiche del reo). Parametro, questo, superiore agli indicatori menzionati all'art. 186 c.d.s. che invece sono atti a integrare lo stato di ebbrezza alcolica. Di qui la conclusione che, nelle ipotesi più frequenti, colui che guida in stato di ebbrezza è pienamente capace di intendere e di volere.
Il sistema ritrova pertanto coerenza senza ricorrere alla fictio di imputabilità che, seppur criticata in dottrina, oggi trova ad ogni modo concordia in giurisprudenza.
Tuttavia, resta fermo che, ove l'agente abbia superato altresì la soglia di ubriachezza come individuata dalla tossicologia forense, valgono le conclusioni cui è giunta in più riprese la suprema Corte, peraltro coerenti con la lettera della norma: rileva comunque l'atteggiamento soggettivo di pseudo-dolo ovvero pseudo-colpa, sussistente al momento del fatto.
Del resto, se è certo che non possa avvalorarsi un giustizialismo fondato sulla condanna, nella prassi risulterebbe insoddisfacente qualsiasi altra via diversa da questa delineata, specie considerando i preoccupanti dati sulle vittime della strada, forniti periodicamente dall'Organizzazione mondiale della Sanità e dall'Istituto Nazione di Statistica.
Partendo dunque dall'analisi di una questione interpretativa avente ad oggetto istituti di parte generale, la trattazione si conclude attenzionando le connesse implicazioni pratiche rispetto al novellato delitto di omicidio stradale.
Dott.ssa Camilla Carlotti