Invalidita’, nullita’ annullabilita’, eccesso di potere: una storia “a puntate”. (parte 3)

03.02.2023

Leggi le prime due parti qui:

Invalidita’, nullita’ annullabilita’, eccesso di potere: una storia “a puntate”. (parte 1)

Invalidita’, nullita’ annullabilita’, eccesso di potere: una storia “a puntate”. (parte 2)

Eccoci giunti alla terza e ultima puntata della nostra chiacchierata sull'invalidità e sull'eccesso di potere. 

Adesso, senza por tempo in mezzo, non ci resta che analizzare le figure sintomatiche dell'eccesso di potere una per una.

Piccola precisazione prima di partire: queste figure non sono state tipizzate dal legislatore, ma sono di creazione giurisprudenziale e quelle che leggerete di seguito sono quelle che, ad oggi, sono le più conosciute ed utilizzate in ricorsi e sentenze amministrativi... andiamo!

  • Errore o travisamento dei fatti. (o anche travisamento dei fatti o falso supposto in fatto). Si parla di questa figura sintomatica quando un provvedimento viene emanato sul presupposto, richiamato nell'atto medesimo, dell'esistenza di un fatto o di una circostanza che risulta invece inesistente. Quando però l'atto viene emanato sulla base della non esistenza di un fatto o di una circostanza che invece risulta esistente emerge la figura dell'eccesso di potere per errore di fatto.

Si pensi all'imposizione di un obbligo di bonifica ambientale di un terreno nel quale invece si dimostra che non sono presenti sostanze inquinanti; al diniego di un permesso di costruire a causa di un vincolo paesaggistico giustificato dalla natura boschiva del terreno che invece, ormai da molti anni, è in gran parte privo di alberi; a un piano regolatore che non indichi nelle planimetrie un edificio del quale è certa la preesistenza.

L'errore di fatto, sovente, consegue a un'altra figura sintomatica costituita dal difetto di istruttoria, e può venire a galla in sede processuale sia in seguito alla produzione di prove da parte del ricorrente, sia in seguito all'esercizio dei poteri istruttori da parte del giudice amministrativo il quale, come si sa e contrariamente al passato, non incontra più alcun limite giuridico a un accertamento pieno dei fatti autonomo rispetto a quello operato nel provvedimento impugnato.

Non rileva se l'errore è inconsapevole o volontario e l'errore di fatto riguarda esclusivamente la percezione oggettiva della realtà materiale e non anche il momento, logicamente successivo, della stima dei fatti da parte dell'amministrazione rimessa al suo apprezzamento.

  • Difetto di istruttoria. Nella fase istruttoria del procedimento l'amministrazione deve accertare in modo completo ed esaustivo i fatti, acquisire gli interessi rilevanti e ogni altro elemento utile per operare una scelta consapevole e ponderata.

Qualora la prefata attività, svolta dal responsabile del procedimento, manchi completamente ovvero sia effettuata in modo superficiale, incompleto o addirittura assente il provvedimento è viziato sotto il profilo dell'eccesso di potere per difetto di istruttoria. L'amministrazione, per fare un esempio, non può prendere per buona la ricostruzione di fatti operata dalla parte privata intervenuta nel procedimento, condurre le opportune verifiche ma deve essere parte attiva nella ricostruzione di cui sopra.

Talchè è ritenuta non legittima la scadenza da una concessione di uso di un bene demaniale qualora non risulti appurato in modo univoco che l'attività del concessionario sia posta in essere in violazione delle condizioni e dei limiti apposti nel provvedimento. Un piano urbano del traffico comunale non può porre limiti di accesso al centro storico se i flussi di veicolari non dimostrino una situazione di congestione. Non può essere imposto un vincolo storico-artistico su un'area nella quale non sono state condotte indagini sufficienti che provino l'esistenza di reperti archeologici significativi.

A differenza dell'errore di fatto, nel caso del difetto di istruttoria non si può escludere che il quadro fattuale posto alla base del provvedimento risulti in effetti esistente e che dunque la scelta operata sia corretta, ma l'analisi del provvedimento e degli atti procedimentali lascia dubbi in proposito. Annullato l'atto e posta in essere una nuova istruttoria, questa volta in modo corretto, l'amministrazione ben potrebbe adottare un atto con il medesimo contenuto.

  • Difetto di motivazione. Nella motivazione del provvedimento l'amministrazione deve dar conto, in sede di decisione, delle ragioni che sono alla base della scelta operata. Per quanto possa essere sintetica, deve consentire una verifica del corretto esercizio del potere, esplicitando l'iter logico seguito per giungere alla determinazione contenuta nel provvedimento, traendo le fila degli elementi istruttori rilevanti e "operando la ponderazione degli interessi".

Il difetto di motivazione è caleidoscopico. La motivazione può essere insufficiente, incompleta o generica, se da essa non traspare in modo percepibile l'iter logico seguito dall'amministrazione e non emergono le ragioni sottostanti la scelta operata. Per rendere un esempio, per gravare di un vincolo paesaggistico un bene, l'amministrazione procedente è tenuta ad illustrare perché esso abbia le caratteristiche che giustifichino l'applicazione del regime protettivo e non può limitarsi ad affermazioni generiche e apodittiche. L'insufficienza della motivazione non è solo un fatto di quantità, ma anche di qualità, come, per esempio, nel caso di omessa considerazione specifica di un interesse acquisito al procedimento.

La l. n. 241/1990 contiene alcune disposizioni che specificano il contenuto minimo della motivazione: l'obbligo di valutazione e dunque di motivazione in merito, gli apporti partecipativi di chi interviene nel procedimento (art. 10); l'obbligo di render conto delle ragioni per le quali non accoglie le osservazioni presentate dall'interessato al quale sia comunicato il preavviso di rigetto di un'istanza (art. 10-bis). La motivazione può consistere soltanto in «un sintetico riferimento al punto di fatto o di diritto ritenuto risolutivo» nel caso in cui l'amministrazione ritenga un'istanza manifestamente inammissibile o infondata

Nella prassi però non si può parlare di un criterio univoco per specificare se una motivazione sia sufficiente o meno. Si può invero ritenere che quanto più ampia è la discrezionalità dell'amministrazione e quanto più gravosi sono gli effetti del provvedimento nella sfera soggettiva dei destinatari, tanto più elevato è lo standard quantitativo e qualitativo imposto alla motivazione.

La motivazione può essere anche illogica e contraddittoria se contiene affermazioni o attinenze a elementi incompatibili tra loro. Può essere, ancora, perplessa o dubbiosa se non consente di individuare con precisione il potere che l'amministrazione ha inteso esercitare.

Anche nel caso del difetto di motivazione, non è da escludere che, una volta annullato il provvedimento, l'amministrazione possa emanarne uno di contenuto identico, emendato dal vizio rilevato. Peraltro, non è consentito all'amministrazione di integrare o emendare la motivazione del provvedimento in sede di giudizio.

Diverso è il caso della mancanza della motivazione. In questo caso estremo il vizio può essere qualificato come violazione di legge, in quanto l'obbligo di motivazione è ora previsto espressamente dall'art. 3 l. n. 241/1990.

Una questione su cui si dibatte è se nel caso dei concorsi o delle procedure di aggiudicazione di contratti pubblici l'attribuzione dei punteggi (per esempio, i punteggi per la valutazione delle pubblicazioni o dei titoli di carriera nei concorsi o per i singoli elementi qualitativi dell'offerta presentata dalle imprese che partecipano alla gara) assolva di per sé all'obbligo di motivazione oppure se essa debba essere ulteriormente sviluppata in forma discorsiva. La giurisprudenza tende a ritenere legittima la motivazione in forma numerica qualora siano stati definiti a monte parametri per l'attribuzione del punteggio molto analitici, suddivisi magari anche in subparametri, con l'indicazione per ciascun parametro e subparametro di un numero massimo di punti attribuibili.

  • Illogicità, irragionevolezza, contraddittorietà. Il diritto amministrativo assume, come principio logico prima ancora che giuridico, che la pubblica amministrazione agisca come un soggetto razionale. Partendo da questo presupposto, dunque, emerge un vizio di eccesso di potere tutte le volte in cui il contenuto del provvedimento e le statuizioni del medesimo espresse nel dispositivo fanno emergere profili di illogicità o irragionevolezza, apprezzabili in modo oggettivo in base a canoni di esperienza.

Così può essere riconducibile alla figura sintomatica in esame il provvedimento di diffida a cessare e a porre rimedio a una violazione di una norma amministrativa a cui sia stato assegnato un termine talmente breve da non poter essere rispettato. O, ancora, un bando di concorso per l'assunzione di dipendenti pubblici non può richiedere il possesso di titoli che non siano correlati alle mansioni che i vincitori saranno poi chiamati a svolgere.

Può essere considerata come sottoprodotto dell'illogicità e irragionevolezza la contraddittorietà intrinseca al provvedimento. Quest'ultima emerge quando non c'è coerenza tra le premesse del provvedimento e le conclusioni tratte nel dispositivo. Si pensi a un piano regolatore che prevede la destinazione a servizi pubblici di un'area in cui insistono attività industriali, contraddicendo la relazione illustrativa che enuncia invece l'obiettivo di difendere e incrementare le attività produttive. Più in generale, tutti i passaggi dell'iter argomentativo seguito dall'amministrazione ed esplicitato nella motivazione devono essere legati da un rapporto di consequenzialità logica.

La contraddittorietà può essere anche estrinseca al provvedimento, quando "è rilevabile dal raffronto tra provvedimento impugnato e altri provvedimenti precedenti dell'amministrazione che riguardano lo stesso soggetto". Sicché risulta affetto da questo tipo di contraddittorietà il provvedimento che pronuncia una valutazione non positiva ai fini dell'avanzamento di carriera di un militare di alto grado che ha ottenuto una serie continua di giudizi encomiastici in relazione ai servizi prestati nel corso della carriera. La contraddittorietà intrinseca o estrinseca costituisce una violazione del principio di coerenza che deve presiedere all'agire della pubblica amministrazione.

Se la contraddittorietà riguarda provvedimenti emanati nei confronti di soggetti diversi, si ha la figura sintomatica della disparità di trattamento esaminata qui di seguito.

  • Disparità di trattamento. Il principio di coerenza e il principio di eguaglianza impongono all'amministrazione di trattare in modo eguale casi eguali.

Il vizio può emergere sia nel caso in cui casi eguali siano trattati in modo diseguale, sia quando casi diseguali siano trattati in modo eguale. Per stabilire in concreto se le situazioni da confrontare siano identiche o differenziate va utilizzato il criterio della ragionevolezza. Il vizio in questione emerge di frequente nei giudizi comparativi, nelle progressioni di carriera o nel riconoscimento di altri benefici ai dipendenti pubblici, oppure nelle classificazioni dei terreni contenute nei piani regolatori ai fini di individuarne le destinazioni d'uso.

Al fine di poter censurare la disparità di trattamento è necessario che il provvedimento abbia il carattere della discrezionalità poiché il vizio non è deducibile nel caso di atti vincolati. Inoltre la comparazione deve riferirsi a provvedimenti legittimi. Infatti non rileverebbe fondare la pretesa di un altro soggetto a vedersi riconoscere, sempre illegittimamente, la stessa utilità percepita inizialmente in maniera illegittima. Per esempio, il fatto che una sanzione amministrativa non venga irrogata, per negligenza, noncuranza o per altre ragioni, nei confronti di alcuni soggetti in relazione a un divieto di sosta; a un abuso edilizio o all'occupazione non autorizzata del suolo pubblico non può essere invocato a giustificazione da altri soggetti ai quali sia contestata un'analoga violazione e dunque non è viziato da disparità di trattamento il provvedimento sanzionatorio emanato.

  • Violazione delle circolari e delle norme interne, della prassi amministrativa. E' bagaglio di conoscenza comune che l'attività della pubblica amministrazione deve essere posta in essere non solo in conformità con le disposizioni contenute in leggi, regolamenti e in altre fonti normative -rispetto alle quali può insorgere, come si è visto, il vizio di violazione di legge- ma anche in conformità alle norme interne contenute in circolari, direttive, atti di pianificazione o altri atti contenenti criteri e parametri di vario tipo ,anche posti in sede di autovincolo alla discrezionalità, che hanno come scopo quello di orientare l'esercizio della discrezionalità da parte dell'organo competente a emanare il provvedimento.

I principi di coerenza e di rispetto dell'assetto organizzativo dell'amministrazione impongono all'organo titolare di un potere discrezionale, nel momento in cui emana un provvedimento, di tener ben da conto delle norme interne. Se ciò non accade si sconfina nel sintomo dell'eccesso di potere. Per evitare di cadere in questo vizio il titolare del potere deve esplicitare nella motivazione le ragioni per le quali ha ritenuto di disattendere nel caso concreto le prescrizioni poste dalle norme interne.

Una particolare specie di norma interna, molto simile al precedente giurisprudenziale (si parva licet componere magnis) è costituita dalla prassi amministrativa la quale si forma all'interno delle amministrazioni attraverso una serie di comportamenti e decisioni assunte in situazioni similari. Anch'essa crea un vincolo di coerenza e di parità di trattamento. Perciò, se l'amministrazione disattende in un caso particolare la prassi seguita in precedenza senza motivare le ragioni che giustificano una siffatta deviazione, l'atto è affetto da eccesso di potere.

  • Ingiustizia grave e manifesta. È questa una realtà invero molto rara. In qualche occasione la giurisprudenza, per ragioni essenzialmente equitative, si spinge fino al punto di censurare provvedimenti discrezionali il cui contenuto appaia manifestamente ingiusto.

Il caso pratico dal quale trae origine questa figura sintomatica risale agli anni Venti del secolo scorso e riguarda l'esclusione dal servizio per scarso rendimento di un dipendente delle ferrovie il quale aveva subito un incidente sul lavoro con effetti disabilitanti permanenti e ciò aveva indotto in un primo momento l'amministrazione ad adibirlo a mansioni meno impegnative, piuttosto che collocarlo subito a riposo per inabilità dovuta a causa di servizio. A breve distanza di tempo il dipendente veniva però esonerato per scarso rendimento. Il vizio è altresì stato rilevato anche in casi di richiesta di restituzione di stipendi pagati a un dipendente pubblico sulla base di un'interpretazione erronea delle norme, senza tener conto della sua situazione patrimoniale che gli impediva di soddisfare i bisogni essenziali della vita.

L'ingiustizia manifesta è una figura sintomatica border line tra il sindacato di legittimità e il sindacato di merito. Perché non si sconfini nel merito il carattere ingiusto del provvedimento deve essere «manifesto», cioè di istantanea certezza per qualsiasi persona di sensibilità media. Vieppiù che anche nel diritto privato il giudice può dichiarare nulla la determinazione dell'oggetto del contratto rimessa dalle parti a un terzo arbitratore ove essa sia «manifestamente iniqua o erronea».

Altre figure sintomatiche hanno una conformazione più oscura. Talora vengono infatti inclusi anche i vizi della volontà, la violazione dei principi di proporzionalità e del legittimo affidamento. Nella specie, il principio di proporzionalità può essere ricondotto al principio più generale di ragionevolezza, dato che l'utilizzo dei mezzi eccendenti il fine non appare conforme a quest'ultimo canone, secondo il normale apprezzamento.

La violazione del principio di proporzionalità si presta a essere sussunta nella categoria dell'eccesso di potere. Anche il mancato riconoscimento del legittimo affidamento generato dall'amministrazione può essere valutato come una violazione del principio di coerenza dell'azione amministrativa, a sua volta riconducibile al canone della logicità.

Anche la violazione o elusione del giudicato amministrativo in passato, veniva enumerata tra le figure sintomatiche dell'eccesso di potere. Questa figura, ora attratta dalla l. n. 241/1990 nella categoria della nullità, ha quindi visto un'innovazione decisa.

La giustificazione teorica delle figure sintomatiche dell'eccesso di potere è controversa.

Stando ad alcune teorie, rilevano essenzialmente come prove indirette dello sviamento di potere e hanno una valenza fondamentalmente processuale e possono essere soltanto ricondotte allo schema civilistico delle presunzioni. Queste, secondo la definizione del codice civile,sono le deduzioni che il giudice trae da un fatto noto per risalire a un fatto ignoto. Le singole figure sintomatiche sono costituite cioè da situazioni che, sulla base dell'esperienza, consentono «di dubitare che si sia attuata la divergenza dell'atto dalla sua finalità». È tutt'ora discusso se, una volta verificata la presenza di una figura sintomatica, sia tollerata in giudizio la prova contraria, se cioè l'amministrazione può dimostrare che, nonostante il sintomo, non sussiste uno sviamento. Eppure siffatta prova contraria non è compatibile con la struttura attuale del processo amministrativo, che è ancora influenzato dal principio del divieto di integrazione della motivazione del provvedimento in corso di giudizio.

In accordo con altre teorie, le figure sintomatiche hanno ormai raggiunto una completa autonomia dallo sviamento di potere e hanno una valenza sostanziale, oltre che processuale. Esse cioè sono riconducibili alla violazione dei principi generali dell'azione amministrativa e più precisamente dei principi che presiedono all'esercizio della discrezionalità.

In una siffatta logica, il giudice non entra nel merito delle scelte discrezionali sostituendo la propria valutazione a quella effettuata dall'amministrazione, ma «riesamina l'iter logico di formazione del provvedimento amministrativo» le contraddizioni e le incongruenze. Il sindacato sul provvedimento dell'amministrazione può essere anche molto permeante seppure esso resti pur sempre esterno e indiretto e pertanto non deborda dal perimetro del sindacato di legittimità.

Recentemente le figure sintomatiche sono state ricondotte alle clausole generali (buona fede, imparzialità) che, similmente a quanto accade nelle relazioni giuridiche privatistiche, sono la genesi di vincoli comportamentali nell'ambito del rapporto giuridico amministrativo che intercorre fra tra la P.A. e il cittadino.

Concludendo, le figure sintomatiche dell'eccesso di potere, pur essendo ormai riconosciute dalla giurisprudenza, hanno ancora uno statuto teorico dubbio. Si ritiene che esse possano essere invero considerate sic et simpliciter, come figure retoriche ormai convenzionalmente riconosciute nella prassi argomentativa del giudice amministrativo.

Dott. Giovanni Lucio Vivinetto